Una naturale ingenuità
Creare problemi [To make trouble], nei discorsi che hanno dominato la mia infanzia, era qualcosa che non si doveva mai fare perché ci si poteva mettere nei guai [get one in trouble]. […] La ribellione e la sua reprimenda sembravano così racchiusi nello stesso termine, cosa che diede origine al mio primo sguardo critico nei confronti degli stratagemmi del potere: la legge predominante minacciava di farti finire nei guai, ti ci metteva addirittura nei guai, e tutto questo per tenerti fuori dai guai. (Butler 2013)
Nella prefazione alla prima edizione del suo Gender trouble così Judith Butler chiariva quell’intraducibile scelta terminologica da lei adottata per titolare il suo lavoro e metteva in luce uno snodo cruciale per comprendere lo sviluppo della sua riflessione: esiste un legame intimo tra linguaggio, comprensione del reale e imposizione normativa rispetto a cui il pensiero parte sempre in condizione di svantaggio, dovendo anzitutto acquisire consapevolezza delle stratificazioni genealogiche con cui, in un determinato contesto socio-culturale, è venuto a costituirsi quell’apparato concettuale di riferimento di cui anch’esso si serve. Questo lavoro preliminare è necessario per poter disinnescare il meccanismo di potere che si attiva non appena un dato orizzonte terminologico-valoriale cessa di essere interrogato e comincia ad essere assunto come naturale sfondo di ogni disamina. Si rischiano guai ben maggiori rispetto a quelli minacciati dalla legge del pensiero dominante quando non si provi ad arginare questo dominio con una messa in questione dell’ovvio, dell’assodato e del garantito, discutendo come problema da indagare tutto ciò che piacerebbe fosse accolto come norma vincolante. Più grave di ogni reprimenda è infatti il pericolo di introiettare quei meccanismi che istituiscono l’eteronormatività a discapito dell’autodeterminazione individuale, di adottare cioè come neutrale una precisa interpretazione del reale da cui deriva una certa impostazione valoriale che viene così implicitamente accettata come limite del proprio margine d’azione. Per tenere sotto controllo queste derive, non è necessario, e nemmeno opportuno, rinunciare a servirsi del linguaggio per dedicarsi alla sua impietosa analisi, ma è indispensabile essere consapevoli delle sue radici socio-culturali e quindi delle sue molteplici ricadute sul piano etico-politico. Un atteggiamento che è, però, tutt’altro che naturale.
La tendenza spontanea, perfino per chi, come i filosofi, dovrebbe essere attrezzato a fare i conti con queste insidie, è invece quella di utilizzare ogni strumento, compreso quello linguistico, come se la sua azione si esaurisse in quella di essere mezzo per uno scopo e non potesse in alcun modo compartecipare alla definizione dell’obiettivo. Un esempio piuttosto comune e non di meno evidente è la disinvoltura con cui, ad ogni livello della comunicazione, si fa riferimento a tutta una serie di contrapposizioni concettuali a partire dalle quali si costruisce la lettura della realtà: così, ciò che non appartiene a uno dei due corni dell’alternativa deve senz’altro essere rubricato sotto l’opposto, riducendo la complessità del reale a una semplificazione binaria che la falsifica e, ancor peggio, la organizza gerarchicamente secondo un’implicita distinzione assiologica. Sottesa ad ogni dicotomia si trova infatti una classificazione valoriale che ripartisce attributi positivi e negativi ai due poli dell’antitesi, istituendo così un vero e proprio criterio morale. Sotteso ad ogni dualismo si trova cioè un dogmatismo, latente ma assoluto, da cui tanto meno ci è possibile sfuggire quanto più ingenuamente ci serviamo delle suddette contrapposizioni come se fossero una descrizione essenziale e non una normazione pratica del reale. E che altro meglio si presenta come descrittivo di ciò che si limita a individuare che cosa è naturale e cosa no?
Non sembra dunque casuale che l’utilizzo del binomio naturale/innaturale predomini nelle pratiche discorsive del quotidiano, orientando la decisionalità individuale e collettiva: tutto ciò che ottiene una patente di naturalità guadagna parimenti il diritto ad essere tutelato e promosso, mentre ciò che, al contrario, non raggiunge questo risultato è con egual forza combattuto e stigmatizzato. L’insidia si nasconde nello stesso processo che porta alla scoperta dell’essere naturale o meno di qualcosa, una dinamica che, lungi dal rivelare la realtà, la trasforma, cancellando la trasformazione stessa e presentandone l’esito come un’essenza sempiterna. Cercare di comprendere quali possano essere i manovratori di tali modificazioni del reale ci porterebbe troppo lontano rispetto all’intento di questo contributo. Non possiamo tuttavia evitare di considerare come, al di là di chi di volta in volta promuova la naturalizzazione e così la valorizzazione di una porzione di realtà, il meccanismo linguistico di propagazione del dominio così instaurato funziona poi in maniera automatica, efficace e inarrestabile. La performatività del linguaggio si spinge qui, infatti, al punto da creare quel naturale che non esiste, per assolutizzarlo in un ideale da perseguire e concretizzare. Un mito, insomma, che deve tuttavia essere inverato nella prassi umana, da quella specie cioè che nulla conosce di puramente naturale, tanto la sua esistenza è condizionata dalla dimensione socio-culturale in cui si trova ad essere e dalla legislazione etico-politica che contribuisce a costruire.
Proprio per questo è sembrato opportuno soffermarsi sul momento che meglio simbolizza questo costante processo di antropopoiesi: la nascita di un nuovo essere umano. La prospettiva adottata per considerare criticamente il ricorso a quella che si è voluta definire la mitologia del naturale è la posizione della madre, chiamata a definire il proprio ruolo alla luce di questi orientamenti, ad esercitare cioè la propria naturale funzione materna secondo indicazioni naturali che non provengono da lei stessa, ma da chi è capace, in sua vece, di prescriverle cosa dovrebbe, naturalmente, fare. Per chiarire l’articolazione della questione in questa fattispecie si farà riferimento a tre ambiti fondamentali nel processo di generazione e crescita di un nuovo umano – il momento del parto, la nutrizione e l’accudimento del bambino –, sintetizzando per ciascuno di essi i termini della contrapposizione e rinviando alle conclusioni per una valutazione critica, in particolare del rischio potenziale che queste pratiche discorsive comportano per il riconoscimento dello statuto di auto-nomia ad un soggetto, quale quello femminile, che da sempre è vulnerabile alla sua cancellazione.