L’attenzione rivolta alla tematica dei beni comuni da parte di cultori e studiosi di ogni disciplina sociale – giuristi, scienziati politici, sociologi, antropologi, economisti, urbanisti, ecc. – ha conosciuto negli ultimi anni un notevole incremento, evidenziando il necessario approccio trans-disciplinare dei contributi in questione.
Lo studio dell’emergente categoria giuridica dei beni comuni si inserisce in una più ampia riflessione volta a ridefinire e a mettere in discussione i principali paradigmi occidentali del Novecento. Difatti, come sottolineato da illustre dottrina, «i beni comuni esigono una diversa forma di razionalità, capace di incarnare i cambiamenti profondi che stiamo vivendo, e che investono la dimensione sociale, economica e culturale, politica» (Rodotà, 2012). In particolare, il benecomunismo, termine coniato nel 2012 in ambito dottrinale, si collega inequivocabilmente alla critica radicale al modello neoliberale dominante (Mattei, 2015) e alla messa in discussione nei sistemi politici e sociali moderni dei principali paradigmi occidentali: il Diritto pubblico europeo, lo Stato sociale, il Partito novecentesco e i tradizionali canali della rappresentanza e della partecipazione democratica.
Per quanto riguarda il Diritto pubblico, la sua trasformazione, volta al recupero della dimensione sociale, segue di pari passo l’evoluzione e l’attuale involuzione dello Stato sociale che rappresenta la più compiuta e democratica forma di Stato moderno o post-moderno. In questo senso, al Diritto pubblico, nel regolare il rapporto tra autorità e libertà, viene riconosciuto il compito di trasformare l’azione dello Stato in strumento di compensazione e gestione dei conflitti sociali. Difatti, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, il potere pubblico si trova a dover regolare un fatto sociale al fine di assicurare l’eguaglianza sostanziale (Cassese, 2014) e domare gli istinti più selvaggi del capitalismo (Mattei, 2015). Lo Stato sociale o Welfare State vede, dunque, accrescere i propri compiti e funzioni ai quali può adempiere solo attraverso la contestuale crescita e modernizzazione degli apparati burocratico-amministrativi (Vittoria, 2014) che comporta, di conseguenza, una continua tensione tra entrate e spese tali da indebolire la sua forza finanziaria (Cassese, 2002). Con la crisi economica e finanziaria che si fa strada negli anni Ottanta e che ha assunto livelli preoccupanti negli ultimi decenni, si assiste alla contestuale crisi fiscale dello Stato che ha condotto al progressivo disimpegno fiscale e amministrativo e a cui si lega la perdita di centralità politica ed economica dello Stato nazionale; a sua volta la spesa pubblica, da leva dell’uguaglianza, si trasforma in strumento di compressione delle libertà sociali e di oppressione fiscale. Inoltre, l’erosione del Diritto pubblico sembra accompagnare le crisi dello Stato dovute alla penetrazione in quest’ultimo di interessi organizzati che conduce alla frammentazione dell’unità statale (associazionismo, pluralismo, “rivincita dei condomini”) e che mina la sovranità interna; all’ampliamento ed espansione del Welfare State per far fronte alla crescente domanda sociale di servizi che inevitabilmente incide, indebolendola, sulla forza finanziaria dello Stato; e, infine, alla formazione di poteri pubblici ultrastatali per tenere sotto controllo fenomeni economici, sociali e naturali che gli Stati possono fronteggiare solo mettendo in comune le proprie forze (Cassese, 2014).