Introduzione: dai numeri, un quadro critico del nostro Paese
I dati ufficiali parlano chiaro[1]: se c’è un fenomeno che possiamo definire megatrend per l’Italia, questo è senz’altro il costante, progressivo e inesorabile invecchiamento della popolazione (Golini e Rosina, 2011). L’accento non va, chiaramente, posto sul fatto che in Italia le persone tendano a morire in età sempre più tarda – fatta salva la parentesi causata dalla pandemia, che ha sensibilmente rallentato il trend (fino al 2020 in crescita costante) della speranza di vita. Una popolazione con una vita lunghissima è un dato, in sé, estremamente positivo: può significare, ad esempio, che il sistema sanitario funziona, o che comunque ci siano dei (diffusi) stili di vita, tali da permettere agli italiani di vivere più a lungo rispetto a molti altri Paesi. Il nostro dato sulla speranza di vita ci dice che siamo in presenza di un complesso di elementi – che sintetizzeremo nel concetto di “qualità della vita” (Istat, 2022a) – che gioca a favore della popolazione italiana, collocandola, sotto questo aspetto, entro i primi dieci paesi del mondo.
Stando al recente rapporto dell’OMS (OMS, 2021), la speranza di vita per un uomo italiano nel 2019 (anno di riferimento dei dati) era di 80,9 anni, per una donna di 84,9, con una media complessiva di 83 anni, mentre il dato del Giappone, la nazione con la più alta speranza di vita del mondo, era di 81,5 anni per gli uomini ed 86,9 anni per le donne (84,3 anni in media). Certamente, la pandemia da Covid-19 ha inciso in modo sensibile sul dato, che però già mostra segni di ripresa. La statistica pubblicata lo scorso aprile dall’Istat (Istat, 2022b), con dati riferiti al 2021, rende chiaramente il devastante impatto della pandemia sulla speranza di vita alla nascita in Italia: a soli due anni di differenza, il dato è sceso a 80,1 anni per gli uomini e a 84,7 anni per le donne (82,4 anni in media). Va sottolineato come questo rappresenti un miglioramento, rispetto al dato 2020, di 4 mesi di vita in più per gli uomini e di circa 3 per le donne. Se però si considera il dato Istat pre-pandemico riferito al 2019, va comunque constatata una perdita di 11 mesi per gli uomini e di 7 per le donne. Moltissimo, considerando l’inerzia (in senso statistico) che caratterizza i dati demografici.
Nonostante la pandemia, in Italia si vive molto a lungo; ma questo dato assolutamente positivo convive in modo problematico con un altro aspetto fortemente caratterizzante il nostro Paese: la scarsa natalità. Nel 2021 il numero medio di figli per donna (di seguito TFR, Total Fertility Rate) è 1,25, dato di poco superiore rispetto all’1,24 del 2020 (Istat, 2022b). Numeri che pongono l’Italia tra le nazioni con il TFR più basso del mondo. Considerando che, per garantire il “rimpiazzo generazionale”, quel numero dovrebbe essere uguale a 2,1, è evidente che si sta configurando una più che possibile criticità futura – e che i due fenomeni che abbiamo considerato (speranza di vita altissima, bassissimo TFR) delineano, nelle loro possibili dinamiche, un megatrend. Ovvero, un fenomeno troppo potente per poterne capovolgere o modificare radicalmente la tendenza, ma per il quale i Futures Studies sono chiamati a delineare possibili scenari, cercare soluzioni, anticipare futuri. In uno dei pochi ambiti disciplinari – quello demografico – che ha la caratteristica di consentire previsioni davvero corrette, proprio in forza della grande stabilità nel tempo dei fenomeni trattati, farsi sorprendere da future criticità sarebbe davvero inaccettabile. Va, semmai, sottolineato che anche i fenomeni demografici interagiscono nella complessità sociale; possono esserne, al tempo stesso, causa e conseguenza. Quindi anche una possibile criticità di carattere demografico va inquadrata in un più ampio contesto, confermando la naturale vocazione dei Futures Studies alla multidisciplinarità (Barbieri Masini, 1993).
Cosa caratterizzerà l’Italia nei prossimi anni? Sicuramente un numero sempre più basso di nuovi nati, insieme a un numero di anziani che sarà negli anni a venire molto più alto di quello attuale – va infatti ricordato che il picco delle nascite in Italia si colloca nel 1964 e da quell’anno il numero di figli per donna ha intrapreso la tendenza che ci porta al dato di oggi – delinea un tipo di società che sarà, nei prossimi decenni, molto diverso da quello che conosciamo oggi. Può tornare utile un’immagine (Fig. 1) pubblicata dall’Istat nel contesto delle Statistiche Sperimentali (Istat, 2016).

L’immagine propone, in dato assoluto, la composizione per sesso e generazioni della composizione della popolazione italiana al primo gennaio 2015. In una ipotetica animazione del grafico, le generazioni più rappresentate, quelle del baby boom, negli anni a venire “saliranno” sempre più, allargandosi verso la cima della piramide, mentre la base risulterà ancora più sottile, dando esattamente l’immagine di una piramide rovesciata. Immagine che non manca di una sua potenza evocativa: se non si attueranno le necessarie misure per affrontare la situazione, come potrà la piramide, di qui a 20-30 anni, restare in equilibrio, o evitare di collassare su sé stessa?
Come mai così pochi bambini in Italia? Capire le cause per trovare future soluzioni
Il calo del TFR è un fenomeno comune, sia pure con “economie di scala” molto differenti, praticamente in tutto il mondo e con pochissime eccezioni (Fig. 2).

Sarebbe ardito affermare che un dato di questo tipo, in Italia, sia esclusivamente la conseguenza, sia pure estrema, di una evoluzione culturale, di un processo, ad esempio, di secolarizzazione (Habermas, 2010), o di modernizzazione (Martinelli, 1998; Rinzivillo, 2006): questo ci porterebbe a leggere, nella pur drastica diminuzione delle nascite in Italia – e pure a costo di inserire un elemento potentemente valutativo in un discorso scientifico – alcune valenze positive. In un discorso teorico di questo tipo, protagonista assoluta sarebbe, chiaramente, la seconda transizione demografica[2] (Rosina e De Rose, 2014; Golini 2019) fenomeno che, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, investì anche il nostro Paese, consentendo (anche) in Italia il controllo delle nascite. In una lettura, puramente teorica, a senso unico (la seconda transizione demografica come unica causa del crollo del TFR in Italia), essa avrebbe avuto comunque un effetto positivo: rendere la maternità e la paternità frutto di una scelta totalmente responsabile, non lasciando più al caso quell’atto di importanza cruciale che è il dare a qualcuno la vita, e consentendo (in teoria) a chi desideri avere figli di poter affrontare la genitorialità nel miglior momento possibile, garantendo una sana e serena crescita della prole.
Affermare questo, però, equivale a dare per scontato che la scelta del “momento perfetto” per avere figli sia, per gli aspiranti genitori nel nostro Paese, qualcosa di semplice. Significherebbe, appunto, dimenticare la società e le sue dinamiche. I numeri, tuttavia, ci vengono anche in questo caso in aiuto per farci meglio comprendere la situazione. Basta osservare, ad esempio, come si distribuiscono, nelle regioni italiane, i due principali indicatori di fecondità per regione (Fig. 3):

Almeno due elementi fondamentali emergono. Se l’età media in cui nasce il primo figlio è 32,4 anni – e tenendo conto che vengono considerate tutte le donne tra i 15 ed i 50 anni – è evidente che molte donne hanno il primo figlio anche più tardi. Questo rende estremamente difficile avere un secondo figlio; a maggior ragione è difficile avere quel terzo figlio che sposterebbe (appena un po’ più in alto) il TFR nazionale. E non può, allo stesso tempo, non colpire chi osserva i dati come la regione che “stacca” notevolmente il proprio TFR rispetto a tutte le altre sia il Trentino-Alto Adige. Questo, per l’effetto di policy a livello locale che garantiscono un welfare robusto, così come una migliore situazione dell’occupazione femminile. Una organizzazione che consenta, in sintesi, ai giovani – e soprattutto alle giovani donne – di non pensare a un figlio come ad una minaccia per il proprio lavoro, oppure come a una spesa insostenibile per il budget familiare.
Non si tratta solo di avere gli asili nido: si tratta di dare lavoro stabile e ben retribuito alle donne, che altrimenti possono vedersi costrette a lasciare il lavoro, mancando le risorse sufficienti per tenere i bambini all’asilo o nelle scuole materne. E questo è tutt’altro che un costo-beneficio; perché la mancanza di un reddito in famiglia porta con sé ricadute sull’educazione dei figli, sulle scelte scolastiche, sulla pratica sportiva; e quindi anche sul lavoro della generazione successiva, nonché sulla salute di tutti i componenti familiari, che nel corso degli anni accederanno meno alle cure se non a quelle di prima necessità. Il lavoro delle donne è un investimento sul futuro[3]. Quanto l’occupazione femminile sia, soprattutto dopo l’emergenza Covid-19, uno degli snodi cruciali per il benessere del nostro Paese nel suo complesso è evidente anche dagli ultimi indicatori di Benessere Equo e Sostenibile da poco pubblicati dall’Istat (Istat, 2022). Il tema dell’occupazione dei giovani, e in particolare delle giovani donne, è uno degli snodi fondamentali che debbono assolutamente essere affrontati, e fin da adesso, in vista dei prossimi anni, se si vuole anticipare (Poli, 2019; Paura, 2022) il collasso che attende il Paese qualora non venga fatto nulla a riguardo. La recrudescenza durante la pandemia del fenomeno NEET (Rosina, 2015), in particolare tra le giovani di 15-29 anni (Fig. 4), va letto come un segnale tutt’altro che debole di sofferenza proprio della fascia di popolazione che sarà nei prossimi anni di importanza cruciale nella costruzione di futuri desiderabili per il nostro Paese.

Non investire fin d’ora nella promozione umana e sociale dei giovani e delle giovani equivale ad un suicidio. Equivale ad avere un Paese non più competitivo a fronte della corsa sfrenata allo sviluppo che sta caratterizzando, ormai da diversi anni, paesi come la Cina o la Corea del Sud. Cosa facciamo, oggi, per rendere i nostri giovani degli adulti padroni delle loro vite (anche su un piano riproduttivo)? Ben poco. Invece di selezionare seriamente i pochi giovani che abbiamo già adesso – ma quando siano “dentro” l’Università – constatiamo il criterio del numero chiuso in entrata, spesso basato su test che a volte neppure riguardano le materie della facoltà per cui concorrono. E come possiamo pensare di prepararli come si deve, se poi tra i criteri che valutano le università c’è anche il numero di laureati? Praticamente, un invito a regalare titoli di studio che non saranno mai spendibili fuori; di fatto, la negazione dell’eccellenza, che non si basa, per definizione, sui grandi numeri[4]. Quando escono (tardi e non sempre preparati) dal percorso di formazione, con un titolo di studio sul cui valore non sempre potremmo dare garanzie, la maggioranza affronta la costante precarizzazione del lavoro, che impedisce di guardare oltre l’immediato presente e rende precario l’intero percorso di vita, come aveva già anni fa intuito Sennett (1998). La sempre maggiore lentezza con cui le giovani generazioni riescono, quando ci riescono, a rendersi indipendenti dalle precedenti, sembra portare il futuro in direzioni tutt’altro che desiderabili (Ambrosi e Rosina, 2009). Perché stupirci, dunque, di un TFR tra i più bassi del mondo, se forse è un segno di saggezza?[5] Su questi aspetti, prima di bruciare le prossime due generazioni di giovani, oltre quella presente, si gioca l’anticipazione da meditare – e mettere in atto – quanto prima.
Una provocazione, per concludere
Parlare di invecchiamento della popolazione in Italia significa guardare al futuro e constatare che la proporzione tra giovani ed anziani vedrà, inesorabilmente, sempre più assottigliata la presenza dei giovani rispetto ad una sempre più forte componente anziana. Le previsioni demografiche dell’Istat, a riguardo sono crude nella loro chiarezza:
Entro il 2050 le persone di 65 anni e più potrebbero rappresentare il 35% del totale secondo lo scenario mediano, mentre l’intervallo di confidenza al 90% presenta un campo di variazione compreso tra un minimo del 33,1% e un massimo del 36,9%. Comunque vada sarà pertanto necessario adattare ancor più le politiche di protezione sociale a una quota così crescente di popolazione anziana. I giovani fino a 14 anni di età, sebbene nello scenario mediano si preveda una fecondità in recupero, potrebbero rappresentare entro il 2050 l’11,7% del totale, registrando quindi una lieve flessione. Rimane aperta, tuttavia, la questione che a tale data il rapporto tra ultrasessantacinquenni e ragazzi risulterà in misura di 3 a 1. (Istat, 2021)
Altrettanto eloquenti sono le proiezioni del report relative all’età media della popolazione. Nel 2070 l’età media degli italiani sarà prossima ai 51 anni. Ed è lo scenario mediano: quindi, se si verificasse l’ipotesi di un invecchiamento anche maggiore della popolazione, la situazione sarebbe ben peggiore.

È evidente che vanno trovate soluzioni di riequilibrio. Sappiamo che non saranno gli stranieri a rimpiazzare i giovani che in Italia saranno sempre di meno (De Santis, 2011; Gesano e Strozza, 2011, 2012) – e non mi pare neppure rispettoso pensare ai migranti come “sostituzioni”, perché sono portatori di valori e cultura in sé stessi. D’altro canto, siamo in un megatrend che va affrontato. E uno dei modi è quello di captare l’opportunità che rappresenta l’altra faccia della crisi.
Torno alla “non-piramide” della Fig. 1, che, anche se un po’ datata, illustra comunque bene un aspetto importante, la cui seminalità non è sfuggita a chi si occupa di futuri possibili (Locatelli, 2021): mai così tante generazioni hanno convissuto, e lo faranno a lungo, nello stesso Paese. Mai c’è stata la possibilità di una tale condivisione di esperienze e di vissuto. Mai è stato così possibile parlare con qualcuno la cui vita si avvicina – o supera – il secolo. Ma occorre far sì che questo scambio esperienziale tra generazioni possa essere proficuo, senza problemi. Senz’altro è necessario che tutta la popolazione sia in buona salute, per evitare una crisi in ambito sanitario (Egidi, 2013). Ma si deve pure, a mio avviso, ripensare radicalmente al ruolo degli anziani in Italia – e per farlo va rivisto proprio il concetto di “anziano”, che non può più essere legato al mero dato anagrafico.
Nell’intervista per il numero di Futuri dedicato alle emergenze demografiche, il professor Golini fece una riflessione che, se letta in tutta la sua portata, rappresenta una formidabile provocazione intellettuale: ovvero, la necessità di trovare per gli anziani una collocazione adeguata nel mondo del lavoro (Facioni, 2016). Una breve frase, che però contiene un mondo. Il rischio che il sistema pensionistico collassi entro il secolo, in un’ottica business as usual, credo non sia trascurabile. Cercare di far convivere giovani ed anziani in modo proficuo per entrambi non sarà impossibile, se ai giovani si garantisca del lavoro non precario e ben retribuito, ed ai secondi una collocazione adeguata alla loro esperienza di vita. Chi fa lavoro intellettuale, così come i liberi professionisti ad altissimi livelli, vive già questa esperienza di long-life working. Diverso il discorso del lavoro dipendente, spesso frustrante e mal pagato, dal quale molti vivono il momento della pensione come una liberazione: non si può certamente chiedere a delle persone insoddisfatte di restare insoddisfatte a vita. Altro discorso quello dei lavori usuranti, per i quali si va in pensione relativamente presto. In sintesi, occorre trovare delle soluzioni. E le soluzioni servono a far sì che vivano meglio tutti. Anche nella piena emergenza demografica che si abbatterà sul nostro Paese nei prossimi anni.
Bibliografia
- Ambrosi E., Rosina A., Non è un paese per giovani. L’anomalia italiana: una generazione senza voce, Marsilio, Venezia, 2009.
- Barbieri Masini E., Why Futures Studies?, Grey Seal Books, 1993.
- Comin G., Speroni D., 2030 la tempesta perfetta. Come sopravvivere alla Grande Crisi, Rizzoli, Milano, 2012.
- De Santis G., Can immigration solve the aging problem in Italy? Not really…, «Genus. Journal of Population Sciences», vol. 67, n. 3, 2011.
- Egidi V., Invecchiamento, longevità, salute: nuovi bisogni, nuove opportunità, in Neodemos.it (a cura di Massimo Livi Bacci) Salute, sopravvivenza e sostenibilità dei sistemi sanitari. La sfida dell’invecchiamento demografico, «Neodemos» http://www.neodemos.it, 2013.
- Facioni C., Anatomia dell’incertezza: il futuro nella voce dei demografi italiani, «Futuri», n.7, giugno 2016.
- Gesano G., Strozza S., Possono gli immigrati ridurre l’invecchiamento della popolazione?, «Neodemos», http://www.neodemos.it, 2012.
- Gesano G., Strozza S., Foreign migrations and population aging in Italy, «Genus. Journal of Population Sciences», vol. 67, n. 3, 2011.
- Golini A., Rosina A. (a cura di), Il secolo degli anziani. Come cambierà l’Italia, Il Mulino, Bologna, 2011.
- Golini A., Italiani poca gente, Luiss University Press, Roma, 2019.
- ISTAT, Indicatori demografici. Stime per l’anno 2015, su http://www.istat.it, 19 febbraio 2016.
- ISTAT, Statistica sperimentale – Classificazione delle generazioni, su http://www.istat.it, 20 maggio 2016.
- ISTAT, Previsioni della popolazione residente e delle famiglie – Base 1/1/2020, Statistiche Report su http://www.istat.it, 2021.
- ISTAT, BES 2021 – Il benessere equo e sostenibile in Italia, su http://www.istat.it, 2022a.
- ISTAT, Statistiche report – Indicatori demografici. Anno 2021, su http://www.istat.it, 8 aprile 2022b.
- Locatelli M., I futuri dell’azione volontaria, «Futuri», n.16, aprile 2021.
- Martinelli A., La modernizzazione, Laterza, Bari-Roma, 1998.
- Paura R., Occupare il futuro. Prevedere, anticipare e trasformare il mondo di domani, Codice, Torino, 2022.
- Poli R., Lavorare con il futuro. Idee e strumenti per dominare l’incertezza, Egea, Milano, 2019.
- Population Reference Bureau, Population Data Sheet, su https://interactives.prb.org/2021-wpds/, 17 agosto 2021.
- Rinzivillo G., The Hardship of Laicality – Essays on Sociology of History, CIVIS, Napoli, 2006.
- Rosina A., De Rose A., Demografia, Egea, Milano, 2014.
- Rosina A., Neet. Giovani che non studiano e non lavorano, Vita e pensiero, Milano, 2015.
- Sennett R., The Corrosion of Character. The Consequences of Work in the New Capitalism, W.W.Norton & Company, New York, 1998,
- World Health Organization, World Health Statistics 2021. Monitoring Health for the SDGs, WHO, 2021
Note
[1] L’autrice, che lavora da molti anni in Istat, dichiara l’assoluta proprietà intellettuale dei contenuti qui presentati, sottolineando come le opinioni qui riportate non necessariamente coincidano con le posizioni espresse dall’Istituzione di appartenenza.
[2] La prima transizione demografica, i cui primi segnali si possono collocare già alla fine del XVIII secolo, inizialmente in Inghilterra ed in Nord Europa, per poi imporsi anche nell’Europa mediterranea, fu caratterizzata da un allungamento della vita media, ad accompagnare la consueta alta natalità. L’aumento della durata della vita si può attribuire, nei suoi primi anni, ad un generale miglioramento delle condizioni di vita (sotto il profilo igienico e dell’alimentazione, ad esempio). A partire dal Novecento, un ruolo fondamentale fu svolto dai progressi nel campo della medicina.
[3] Non tratto il tema della formazione, in quanto ormai da anni le donne hanno titoli di studio più alti degli uomini, conseguiti in un numero minore di anni e con voti mediamente migliori. A riguardo, basta analizzare le serie storiche dei dati ufficiali sull’istruzione per comprendere quanto siano aspetti socio-culturali a remare contro la condizione femminile sul lavoro; non certo il livello d’istruzione delle donne. Vanno, semmai, in ottica di anticipazione, tenuti in conto i segnali del crescente fenomeno dell’abbandono scolastico, che le problematiche della pandemia hanno accentuato.
[4] La parola deriva dal latino excellĕre, composto di ex- e *cellĕre, che significa distinguersi, uscire fuori dal gruppo (su https://www.treccani.it, consultato il 5 aprile 2022)
[5] A riguardo, faccio mia la considerazione espressa da Viviana Egidi nell’intervista che mi concesse per Futuri nel 2016 (Facioni, 2016).