La politica della Post-verità, termine votato dall’Oxford Dictionaries come parola dell’anno per il 2016, si sta facendo prepotentemente largo come una delle chiavi concettuali principali per comprendere l’evoluzione di molti sistemi politici liberal-democratici nel corso degli ultimi anni, e più in generale per comprendere l’evoluzione degli stati e delle loro istituzioni. I politici, i tecnici e gli esperti vengono quotidianamente messi alla berlina da orde di internauti che, sulla base di conoscenze quantomeno discutibili, offrono giudizi spesso errati ma che, reiterati, formano e danno forza a movimenti di opinione che criticano l’expertise delle élite. Le teorie cospirazioniste, sempre esistite, trovano nuovi canali per propagarsi con facilità. La radicalizzazione della gioventù delle periferie europee corre veloce sulle reti del web, dove predicatori radicali islamisti trovano facili prede per l’indottrinamento, o dove gli eroi criminali del cinema o della realtà trovano cittadinanza in forma di meme che normalizzano la loro immagine.
Questi fenomeni sono, più in generale, legati alla nascita dei cosiddetti “media ibridi”, il cui ruolo sta avendo un impatto significativo anche sulle attuali realtà politiche e sociali. Essi hanno eliminato la mediazione che prima esisteva tra governanti e governati, rendendo i secondi sempre più capaci di influenzare scelte e decisioni dei primi. In questo ambiente, i fatti oggettivi, le conoscenze consolidate e le capacità obiettive stanno diventando sempre meno decisive nell’influenzare l’opinione pubblica, che invece si forma sempre di più sulla base di emozioni, credenze personali, e convinzioni, in una sorta di Polis del Pathos 2.0 di platoniana memoria. Stati, gruppi sociali e politici, organizzazioni di vario tipo, cercano quindi di sfruttare questo nuovo ambiente per promuovere i loro interessi e le loro priorità, e la miscela esplosiva di post-verità, stagnazione economica, media ibridi e globalizzazione della rabbia ha il potenziale, da un lato, per creare una serie di nuove crisi contro le quali gli Stati contemporanei hanno pochi mezzi e, dall’altro, hanno il potenziale per compromettere la capacità delle istituzioni statuali di gestire le crisi. L’idea di questo saggio è di focalizzarsi su quest’ultimo aspetto, cercando di capire come la post-verità possa provocare una crisi nella gestione delle crisi negli stati contemporanei.
L’era della Post-Verità
Nel 2016, l’Oxford Dictionaries ha ‘premiato’ la Post-Verità (Post-Truth) come parola dell’anno per il 2016. Nel mondo anglosassone, già da qualche anno si sta studiando questo fenomeno, mentre in Italia i primi lavori organici su questo argomenti siano arrivati da poco (Cosentino, 2017; Quattrociocchi e Vicini, 2017) anche se qualcuno aveva individuato il trend già da qualche anno (Rositi, 2010). Stando alla definizione tecnica fornita dall’autorevolissima fonte, la post-verità è un aggettivo – ma che viene anche utilizzato sempre di più anche come sostantivo - che «si riferisce, o che denota, circostanze nelle quali i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto al richiamo all’emozione e alle credenze personali».
Sebbene in auge già da circa un decennio, i responsabili dell’Oxford Dictionaries hanno scelto questa parola visto il rapido susseguirsi di eventi politici in cui il ruolo giocato da narrative intimamente connesse alla post-verità è stato determinante: il referendum britannico per l’uscita dall’Unione Europea, ma soprattutto la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane del novembre 2016. Inoltre, sempre secondo l’Oxford Dictionaries, la post-verità si è trasformata da termine tendenzialmente marginale in un concetto chiave per molte analisi politiche e sociali, e in molti casi utilizzata senza necessità di chiarificazione o definizione ulteriore nei titoli di quasi tutti i principali media mondiali.
Nel corso di quest’ultimo decennio, la post-verità ha anche modificato progressivamente il proprio ambito di senso. Steve Tesich fu il primo ad utilizzarla, nel 1992, in un articolo sul The Nation (Tesich, 1992), partendo dallo scandalo del Watergate, l’ultima volta in cui la verità oggettiva è servita per smascherare i giochi dei potenti; questo fu il momento in cui, per Tesich, la società americana iniziò a «stare lontana dalla verità» decidendo volontariamente di «voler vivere nel mondo della post-verità». In questo senso, lo scandalo Iran-Contras e la guerra del Golfo del 1991 rappresentavano, per Tesich, l’emblema di questa deriva. Sebbene, in tale sede, Tesich si riferisse alla post-verità come alla fase «successiva al momento in cui la verità è stata conosciuta», in un certo senso egli colse una serie di fremiti sociali che negli anni successivi sarebbero diventati ben più diffusi. Da questo punto di vista, se Tesich avesse scritto questo articolo nel biennio successivo agli attacchi dell’11 settembre, avrebbe probabilmente aggiunto alla lista il tentativo – alquanto maldestro – dell’amministrazione americana di giustificare dal punto di vista del diritto internazionale tale intervento utilizzando una serie di ‘prove’ che già allora destarono dubbi, e che negli anni sono state derubricate a “bugie” tout court (Krugman, 2015).
In maniera più organica e organizzata, il primo lavoro in cui questo termine è apparso è un libro del 2003 scritto da Ralph Keyes dal titolo The Post-Truth Era: Dishonesty and Deception in Contemporary Life (traducibile come “La post-verità: disonestà e inganno nell’era contemporanea”). In questo libro, Keyes parlava più che altro di disonestà tout court. Richiamando la quantità di sinonimi ed eufemismi utilizzati per descrivere la disonestà, questi rispondono alla necessità, secondo l’autore, di creare una sorta di scudo difensivo per gli uomini sulle implicazioni della disonestà. In questa epoca, quindi, l’umanità non dispone solo di verità e bugie - concetti con contorni chiari, cristallini, e ben definiti, ontologicamente separati da una chiara demarcazione – ma si assiste all’emersione di una terza categoria, quella delle verità relative: parole ed espressioni intrinsecamente ambigue, che non sono verità inoppugnabili ma al tempo stesso non sono neanche bugie. Keyes nel suo libro esplora diverse, possibili espressioni per definire questa evoluzione e dare un nome a questa dinamica: Enhanced truth, Neo-truth, Soft truth, Faux truth, Truth lite (Keyes, 2004). L’oggetto dell’analisi di Keyes è la società americana, descritta come una società in cui le persone raccontano sempre di più bugie su base quotidiana. Mentre questa è una caratterista che difficilmente può essere considerata esclusiva della società americana, al tempo stesso è interessante notare che una società descritta, all’alba degli anni Duemila, come una società progressivamente abituata a dire verità relative se non bugie tout court, abbia eletto un decennio dopo un presidente che su verità relative ha costruito – e vinto – una doppia campagna elettorale impostata da un (sebbene ricchissimo) political underdog, prima nelle primarie repubblicane sfidando l’establishment del partito e dopo sfidando la candidata dell’establishment “per definizione”, e sulla quale si era riversato anche l’establishment repubblicano, quella Hillary Clinton che – nelle narrative dell’alt-right americana – ben rappresentava, da un lato, l’ennesimo appartenente a una delle dinastie politiche americane simbolo di immobilismo, nepotismo e (nel caso specifico) “oppressione fiscale” delle sinistre mentre, dall’altro, rappresentava anche il simbolo della deriva globalista ed elitista della politica americana.
In tal senso, la post-verità va quindi intesa non come fase successiva della verità. Come notato sempre dall’Oxford Dictionaries, questa espressione non si limita semplicemente a fornire una connotazione di tempo, intendendo con post-verità il ‘dopo-verità’. In questo contesto, il post indica «l’appartenenza a un tempo in cui il concetto specificato è divenuto o non importante o irrilevante», in questo tratteggiando in questo senso una similitudine con i concetti di post-nazionale o post-razziale.
Infatti, da questo punto di vista, la post-verità denota più prosaicamente un’atmosfera in cui la verità oggettiva è irrilevante nella formazione delle opinioni di individui e gruppi sociali. In tal senso, prevalgono invece le credenze dettate dalle emozioni. Come fatto notare da Adriana Cavarero sul Corriere della Sera, una tale dicotomia non è per nulla nuova, ma era già stata concettualizzata da Platone nella sua critica alla democrazia nella Repubblica, in cui Platone contrapponeva la polis ideale, costruita sulle verità, alla polis del “grosso animale” delle moltitudini, la cui polis è basata sul pathos, sulle emozioni, e quindi facilmente modellabile da quelli che quelle emozioni sapevano cavalcarle, come ad esempio i sofisti (Cavarero, 2017; Fattori, 2017).