S’intitola La società degli automi. Studi sulla disoccupazione tecnologica e il reddito di cittadinanza (D Editore) l’ultimo libro di Riccardo Campa, professore di Sociologia all’Università Jagellonica di Cracovia, dove ricopre anche il ruolo di direttore del Centro di ricerche sulla Storia delle Idee. Il professor Campa, che è anche membro del comitato scientifico della rivista Futuri, è una delle voci di punta del dibattito italiano sugli scenari tecnologici e gli impatti sociali: nei suoi numerosi saggi ha approfondito il tema del transumanesimo (Mutare o perire, 2010; La specie artificiale. Saggio di bioetica evolutiva, 2013), la sociologia della scienza (Epistemological Dimensions of Robert Merton’s Sociology, 2001; Etica della scienza pura, 2007) e i temi più attuali del dibattito scienza-società (Storie di fine vita. Saggio sull’eutanasia, 2014; Creatori e creature. Anatomia dei movimenti pro e contro gli OGM, 2016). Con La società degli automi Campa interviene nel dibattito di strettissima attualità sulla disoccupazione tecnologica, gli scenari e le possibili politiche da adottare per gestirla. Uno studio che s’inserisce in un filone editoriale che ha visto nell’ultimo anno un vero e proprio boom di titoli sugli scaffali, segno di un crescente interesse di studiosi, giornalisti, “futurologi” sul tema, e di un primo embrionale dibattito nell’opinione pubblica e nel mondo politico. Di questo abbiamo deciso di parlare direttamente con lui a partire dalla lettura del suo libro.
A lungo il problema della disoccupazione tecnologica è stato ignorato o sottovalutato. Per almeno tre decenni, ossia dagli anni Ottanta, il mantra era che per ogni posto di lavoro automatizzato la rivoluzione informatica ne avrebbe creato uno nuovo. Perché questo ragionamento si è rivelato errato?
Il ragionamento non è errato in se stesso. Finora è andata più o meno così. Ma la vera domanda è se continuerà ad andare così in futuro. L’intelligenza artificiale non è un prodotto come gli altri. È una tecnologia che si sviluppa a ritmi esponenziali ed è capace di esibire comportamenti umani, o finanche più che umani. Inoltre, ciò che conta non è soltanto il numero dei posti di lavoro, ma anche la loro qualità. I governi occidentali hanno cambiato il modo di contare gli occupati e quindi il problema è diventato meno visibile. Tuttavia, non dobbiamo chiederci soltanto se una persona ha un lavoro o meno. Dobbiamo chiederci se con quella occupazione è in grado di mettere su famiglia e mantenere due o tre figli, che è la quantità minima richiesta da una comunità per perpetuarsi. E, più in generale, dobbiamo chiederci se la cultura veicolata da un certo sistema economico induce gli individui a fare figli. Se gli individui sopravvivono e scompare la comunità, con la sua cultura specifica, è tutto vano. In Italia, come in altri paesi dell’Occidente, la vera crisi è demografica. Siamo sotto al tasso di rimpiazzo, con 1,2 figli per coppia. In sintesi, l’errore sta nel pensare alle teorie economiche come a teorie della fisica. Ovvero, ritenere che gli individui siano tutti uguali e rimpiazzabili, come gli atomi; che esistano davvero delle risposte automatiche e prevedibili con certezza; e che fattori come la cultura, la biologia, la demografia, ecc., non abbiano un ruolo nelle dinamiche economiche. E questo non vale soltanto per il paradigma neoliberista, che finora ha negato l’esistenza della disoccupazione tecnologica, ma anche per i paradigmi rivali: quello keynesiano e quello marxista. La realtà è che tutte le teorie economiche sono un misto di osservazioni fattuali e di dogmi ideologici, di calcoli scientifici e proiezioni utopiche.
Per entrare nello specifico, quello che dico ne La società degli automi – e che ormai ammettono anche i più prestigiosi istituti appartenenti al campo neoliberista – è che le nuove tecnologie robotiche e informatiche consentono di automatizzare anche i lavori della classe media. Secondo una di stima del McKinsey Global Institute, circa la metà degli attuali posti di lavoro scompariranno a breve. Il che potrebbe significare, per l’Italia, la scomparsa di undici milioni e ottocentomila di posti di lavoro nel prossimo decennio. Naturalmente, potrebbero anche nascere nuove occupazioni che ora non esistono e che non riusciamo nemmeno a immaginare, ma di fronte a questo scenario, non possiamo semplicemente affidarci alla fede nei meccanismi autoregolativi del mercato. Storicamente esistono anche paesi che entrano in crisi irreversibili, mercato o non mercato. O che tornano in equilibrio dopo lunghi e dolorosi periodi di sofferenza. Perciò, dobbiamo avere pronto un “piano B”, da implementare in tempi rapidi, perché – come diceva Keynes – nel lungo periodo saremo tutti morti.
La “società degli automi” è stata prefigurata da secoli. Nel libro, lei ricorda le profezie di Ippolito Nievo, e si potrebbero citare anche quelle di John Maynard Keynes o di Isaac Asimov. Tuttavia, a lungo questo scenario è rimasto confinato perlopiù alla fantascienza. Cos’è cambiato? Perché oggi questa società degli automi ci sembra non appartenere più al futuro ma, come sostiene nel libro, al presente?
È la qualità delle macchine che è cambiata. Dal XIX secolo fino alla fine del XX secolo, le macchine hanno perlopiù sostituito i lavori manuali, nelle campagne e nelle fabbriche. I lavoratori in eccesso venivano riqualificati e assorbiti nei servizi. La chiave per risolvere il problema della disoccupazione tecnologica era l’istruzione. Oggi, però, accade che le macchine e i software sono in grado di sostituire anche le mansioni tipiche dei colletti bianchi. Non scompaiono soltanto i cassieri e i commessi. Impieghi che si ottengono dopo un lungo iter formativo, che richiede da parte del cittadino un notevole investimento di denaro, tempo e impegno, possono ora essere svolti da software. Pensiamo soltanto all’automazione in campo legale o medico. Sempre più spesso, laddove trovavamo un consulente in carne ed ossa, oggi troviamo un software che risponde alle nostre domande o avvia una pratica. Certamente, la figura dell’avvocato o del medico non scompariranno del tutto, ma il numero di persone che potranno vivere dignitosamente di questo lavoro tenderà a ridursi. Anche la figura dell’impiegato è in crisi. Un uomo d’affari che prima aveva bisogno di un certo numero di impiegati qualificati, per raccogliere informazioni o relazionarsi con i clienti, oggi può affidarsi in gran parte a programmi con interfaccia vocale. Nel momento in cui le macchine iniziano a sostituire non soltanto le braccia ma anche i cervelli, l’istruzione superiore cessa di essere la chiave per risolvere il problema della disoccupazione.
Il sociologo James Hughes sostiene che l’alternativa è tra “luddismo, barbarie o reddito di cittadinanza”. Verso quale scenario ci stiamo muovendo?
Sebbene si tratti di uno slogan, c’è in esso una verità profonda. Sono fondamentalmente d’accordo con l’analisi di scenario di Hughes. La peculiarità del mio approccio è che non parto dal presupposto che tutti i paesi avranno lo stesso futuro. Molti futurologi parlano di futuro dell’umanità, identificando il proprio paese con l’umanità e dimenticando che su questo pianeta coesistono comunità umane molto diverse per storia e cultura. Ci sono comunità nazionali ipertecnologiche come il Giappone e altre comunità che sono ancora allo stadio neolitico. Ci sono paesi che progrediscono sul piano scientifico-tecnologico e altri che regrediscono. Ci sono paesi che si industrializzano e altri che si deindustrializzano. Tra questi ultimi c’è l’Italia, per esempio. L’idea di un progresso dell’umanità intera come fatto ineluttabile è un’idea ottocentesca. Il futuro verso il quale ogni singola comunità nazionale si muove dipende in gran parte dalla volontà di muoversi in una certa direzione. Molto dipende dalla qualità e dalla lungimiranza delle élite di quel paese. Vedremo in alcuni paesi trionfare il luddismo, in altri la barbarie di élite sempre più ricche circondate da miseria crescente, e in altri ancora una più equa redistribuzione delle ricchezze. Il reddito di cittadinanza incondizionato, ovvero corrisposto a tutti i cittadini indistintamente, a prescindere che lavorino o meno, nei prossimi decenni potrebbe essere lo scenario dei paesi più avanzati.
Una delle ipotesi, sostenuta tra gli altri da Bill Gates, per correggere le storture sociali dell’innovazione, è quella di una “tassa sui robot”, un’imposta che grava su chi utilizza sistemi di automazione al fine di rendere più conveniente l’impiego di lavoratori salariati. Qualcuno l’ha definita “fantascienza fiscale”: quale è la sua opinione?
Credo che Bill Gates sia animato da buone intenzioni, ma io sono generalmente contrario all’eccessiva pressione fiscale e, in particolare, alle tasse che frenano l’innovazione. Quella di Gates è una proposta che va nella direzione del luddismo. Sarebbe invece opportuno pensare a soluzioni che portano ad una redistribuzione dei benefici prodotti dall’automazione. Molti lavori sono ripetitivi e poco gratificanti. Se le macchine li svolgono al posto degli esseri umani è un bene, a patto che questi esseri umani non vengano lasciati in mezzo alla strada. Anche perché la disoccupazione diffusa non fa altro che alimentare la criminalità. È quindi un problema di tutti, anche di chi ha un reddito. Chi ragiona astrattamente dimentica che gli esseri umani non accettano facilmente la propria fine, soltanto perché è decretata da una teoria economica o giuridica. Se il sistema in cui vivono li lascia ai margini della società, esibiscono comportamenti devianti. C’è chi si suicida, come spesso leggiamo sui giornali, ma c’è anche chi reagisce commettendo reati o ribellandosi.
Nel capitolo sulla terza rivoluzione industriale sostiene che il reddito di cittadinanza completerebbe il passaggio del cittadino da produttore a consumatore: fondamentalmente verremmo pagati per consumare, per sorreggere l’industria e il mercato. Lungi dall’essere una proposta anti-capitalistica, dunque, quella del reddito di cittadinanza sarebbe una soluzione alla crisi del capitalismo?
Esatto. Voglio chiarire che il mio approccio è sociologico, non politico. Ciò significa che cerco innanzitutto di capire che cosa sta accadendo e potrebbe accadere. Il mio scopo principale non è proporre il mio punto di vista sulla società ideale, ma comprendere i vari punti di vista in campo. È chiaro che, dal punto di vista dei capitalisti, il reddito di cittadinanza non è la soluzione ottimale, perché comporta la redistribuzione di una quota di reddito, ma sarebbe comunque la soluzione meno dolorosa, nel caso la situazione dovesse precipitare. Oltre al crollo dei consumi, di fronte a uno scenario di disoccupazione di massa e criminalità diffusa, diventerebbe concreto il rischio di una caduta degli attuali governi “moderati”, i quali sono tendenzialmente al servizio dei poteri forti. Lo ha dimostrato la gestione della crisi finanziaria del 2008 che è stata fatta pagare a lavoratori e pensionati, con le note operazioni di bailout delle banche d’affari. La crescita del malcontento porterebbe alla sostituzione dei governi moderati con governi di orientamento sociale, nazionale, populista. In altri frangenti storici, il capitale ha accettato compromessi. Molta disoccupazione generata dalla robotizzazione delle industrie è stata in passato riassorbita attraverso la creazione di posti di lavoro nella pubblica amministrazione. Posti che non sempre avevano un’utilità evidente. Anche la creazione di impieghi nel settore pubblico è un modo per sostenere i consumi e mantenere l’ordine pubblico. La differenza è che il reddito di cittadinanza costa meno rispetto alla moltiplicazione di impieghi pubblici o ad altre forme di supporto sociale, come il sussidio di disoccupazione, la cassa integrazione guadagni, la mobilità, ecc. Inoltre, consente al settore privato di impiegare saltuariamente i cittadini, per il tempo di cui ne ha bisogno, cosa impossibile se sono dirottati negli uffici pubblici o beneficiano di un sussidio classico. Non dimentichiamo che – per fare solo un esempio – il reddito di cittadinanza è stato istituito in Finlandia da un governo di centrodestra.
Quello che non tutti hanno capito, seguendo il dibattito italiano, è che il reddito di cittadinanza non è il sussidio di disoccupazione, che in Italia non è peraltro mai stato istituito, nonostante l’UE ci chieda di farlo dal 1992. Ora, ci vogliono spacciare il vecchio sussidio di disoccupazione per reddito di cittadinanza o reddito di inclusione. Ma con queste iniziative siamo indietro di trent’anni. Il reddito di cittadinanza in senso stretto dovrebbe essere dato anche ai lavoratori, nelle cui buste paga, in caso di redditi elevati, figurerebbe come tassazione negativa o sgravio fiscale. Ecco perché questo istituto sarebbe un vantaggio anche per gli imprenditori privati. Una quota di tasse che finiva nelle casse dello Stato finirebbe nelle tasche dei lavoratori, dipendenti o autonomi, che poi sono consumatori diretti di beni e servizi, o risparmiatori. È, comunque, evidente che una tale operazione dovrebbe essere accompagnata da una ristrutturazione della spesa pubblica, perché i soldi non cadono dal cielo. L’ipotesi dei governi che hanno avviato le sperimentazioni è che il reddito di cittadinanza, a differenza del sussidio di disoccupazione, non disincentiverà il lavoro, o – se si preferisce – non incentiverà il parassitismo, perché è cumulativo. Chi percepisce il reddito di cittadinanza non lo perde quando trova un impiego e, poiché la somma percepita è modesta, la ricerca del lavoro continua. Inoltre, proprio perché viene dato a tutti, non è percepito come un’ingiustizia dai settori produttivi della società. Su questo bisogna essere estremamente chiari. Un paese che continua, sic et simpliciter, a togliere reddito a chi lavora per darlo a chi non lavora, che sia un banchiere o uno sbandato, è destinato al fallimento.
Immaginare la “fine del lavoro” sembra utopia, eppure sostiene nel libro che in passato le ore lavorative erano di meno e che il “mito del lavoro” sia sorto di fatto nel XX secolo, potremmo dire con l’avvento delle socialdemocrazie. Si tratta quindi di un paradigma molto meno antico di quanto generalmente si creda. Ma siamo davvero pronti a sostituirlo? Una volta che le nostre democrazie non saranno più “fondate sul lavoro”, su cosa si fonderanno?
In realtà è nel XIX secolo, con la rivoluzione industriale, che si sono moltiplicate le ore di lavoro. Prima, nelle campagne, si lavorava finché c’era luce e soprattutto nei mesi caldi, quando la terra era produttiva. Nella società preindustriale c’erano, non a caso, molte feste religiose, soprattutto nei mesi invernali. Con l’invenzione della macchina a vapore, dell’illuminazione a gas, e poi della luce elettrica, è diventato possibile lavorare giorno e notte, per tutta la durata dell’anno. I socialisti hanno sempre lottato per la riduzione dell’orario di lavoro, pur creando – questo è vero – il mito del lavoro, come pietra d’angolo della società. Parlavano, però, del lavoro non alienato. Ovvero, del lavoro creativo e gratificante. Per capirci, non alienato è il lavoro di un artigiano che trova soddisfazione nel creare un oggetto complesso, che pochi sanno fare, del quale fissa il prezzo e il cui corrispettivo intasca interamente, se decide di venderlo. Alienato è il lavoro di un operaio sulla catena di montaggio, che svolge un lavoro ripetitivo e non è proprietario del frutto del suo lavoro. Non trae piacere dal lavoro, non può fissare il prezzo del prodotto, né decidere di non venderlo. In altre lingue ci sono parole diverse per distinguere i tipi di lavoro: si pensi alla differenza, nella lingua inglese, tra work e labour, o nella lingua polacca tra praca e robota. Se lasciamo fare alle macchine il lavoro alienante, ciò non significa che scomparirà il lavoro. La speranza è che i cittadini di un paese continuino a lavorare, magari facendo ciò che davvero amano fare. Se le cose vanno per il verso giusto, le società del futuro saranno fondate sul lavoro non alienato. Mi si conceda questa professione di tecno-ottimismo.
Nonostante sia diventato un tema di grande attualità nel dibattito culturale, la politica nostrana sembra rimasta molto indietro riguardo al problema della disoccupazione tecnologica. Nel corso della sua campagna per la segreteria del Partito democratico, e dopo essersi confrontato sul tema con Elon Musk in un viaggio negli Stati Uniti, l’ex premier Matteo Renzi si è detto contrario alla proposta del reddito di cittadinanza proponendo al suo posto il “lavoro di cittadinanza”, ma poi non se n’è più parlato. Il Movimento 5 Stelle in Italia è diventato il portabandiera della proposta del reddito di cittadinanza, ma senza offrire proposte concrete per realizzarlo. Cosa suggerisce alla politica italiana per affrontare lo scenario della disoccupazione tecnologica?
Tanto complessa è la questione che sarei tentato di cavarmela a buon mercato, ripetendo le parole di Marx: “Non prescrivo ricette per l’osteria dell’avvenire”. Tuttavia, conscio che il mio parere conta fino a un certo punto, proverò ad abbozzare un’analisi. L’Italia è profondamente mutata nel 1992. Prima di quella data era arrivata a diventare la quinta potenza mondiale, tanto che è stata inclusa nel G7. A partire da quella data l’Italia è entrata in una fase di declino. Per spiegare le cause del declino non basterebbe un libro. La letteratura sull’argomento è vastissima. È bene però ricordare che l’Italia dei primi anni Novanta era un paese “semi-socialista”. O, se si preferisce, il nostro sistema economico era una sorta di “capitalismo di Stato”. Le banche erano pubbliche, così come molte grandi aziende. Il 65% del PIL era generato direttamente o indirettamente dallo Stato. C’erano politiche industriali di ampio respiro, nelle quali si incanalavano le energie delle piccole-medie aziende private – il cosiddetto “indotto”. Negli anni Settanta e Ottanta inizia l’automazione delle fabbriche e, come spiego ne La società degli automi, dati ISTAT alla mano, il settore secondario si svuota di manodopera. Poiché eravamo un paese semi-socialista, con la classe politica che svolgeva un ruolo di guida e arbitrato, anche attraverso la concertazione, l’impatto della disoccupazione tecnologica non è stato particolarmente traumatico. Si è trovato il modo di spostare la manodopera in eccesso dalle fabbriche ai servizi, ovvero dal secondo al terzo settore.
Diversa la situazione dopo il 1992. In quel frangente, le élite economiche hanno preso il sopravvento sulle élite politiche. Nel capovolgimento dei rapporti di forza, le seconde si sono messe al servizio delle prime. Viene così avviata la privatizzazione delle industrie di Stato e delle banche, e l’Italia entra nel nuovo ordine dell’economia globale o neoliberista. Per fare fronte a speculazioni e mettere “i conti in ordine”, al fine di entrare nella zona euro, aumenta drasticamente la pressione fiscale. Quello che accade è che, per questa e tante altre ragioni, diminuiscono gli investimenti. Inizia una fase di delocalizzazione delle aziende e, dunque, di deindustrializzazione. Secondo certe stime, l’Italia ha delocalizzato tra il 40% e il 50% delle produzioni. Ciò significa che, nel nostro paese, molta della disoccupazione attuale non è dovuta all’automazione, ma alla deindustrializzazione.
Arrivo al dunque. Il discorso del “reddito di cittadinanza” o del “lavoro di cittadinanza” ha senso soltanto se prima si opera il rimpatrio delle aziende che si sono spostate oltre confine e – aggiungo – dei cervelli che sono emigrati al loro seguito. Solo in caso di rimpatrio dei capitali fissi e mobili si ha la forza effettiva per attuare una delle due politiche. Altrimenti, le parole del governo e dell’opposizione restano soltanto slogan elettorali. Come riportare in Italia gli investimenti? Gli economisti globalisti dicono che dovremmo offrire condizioni vantaggiose al capitale, perlomeno paragonabili a quelle offerte nei paesi in cui fabbriche e uffici sono stati delocalizzati, in termini di salari, flessibilità dei contratti, pressione fiscale, efficienza della burocrazia, ecc. Ovvero, diventare un paese liberista a pieno titolo. Gli economisti sovranisti, dal canto loro, dicono che dovremmo invece recuperare la sovranità monetaria, il controllo politico sul sistema del credito, separare le banche commerciali dalle banche d’affari, rimettere in campo le politiche industriali, ecc. Ovvero, tornare ad essere un paese semi-socialista. Ogni soluzione ha i suoi pro e contro, i quali sono diversi a seconda di quella che è la collocazione dei cittadini nella stratificazione sociale. Non c’è una soluzione buona per tutti. Tutti parlano del “bene del paese”, in termini generici, ma nella realtà ci sono anche le classi sociali, non solo i paesi. Una soluzione che favorisce una classe può andare a detrimento di un’altra. Perciò, la scelta va lasciata all’elettore, sperando che riesca a capire qual è il suo vero interesse. Quello che è vero in termini generali è che ora l’Italia è in mezzo al guado. Non è né carne né pesce. Non è né un paese semi-socialista com’era prima del 1992, né un paese liberista compiuto. Parlando per metafore, diceva Cartesio che, se ci si perde in un bosco, la soluzione migliore è prendere una direzione e andare sempre diritto. Prima o poi si uscirà dalla selva. Se invece si inizia a girovagare a casaccio, si rischia di tornare sempre al punto di partenza.
In passato lei è stato uno degli intellettuali di punta del transumanesimo, soprattutto in Italia. Qual è la posizione del movimento transumanista sulla “società degli automi”? La condivide?
Il transumanesimo è un movimento variegato che contiene diverse posizioni politiche e religiose. Per rimanere a quanto stavo dicendo poc’anzi, ci sono transumanisti neoliberisti e neokeynesiani, globalisti e sovranisti. Posso dire che la mia posizione sull’automazione è in linea con quella dell’Institute for Ethics and Emerging Technologies (IEET), che una delle istituzioni transumaniste più note, del cui staff faccio parte nella veste di “fellow”. Sia chiaro che con queste considerazioni passiamo dal dominio analitico-descrittivo della scienza sociale al dominio assio-normativo della politica. L’idea di fondo è che il progresso tecnico-scientifico è un “bene comune” e, quindi, deve andare a vantaggio di tutti o perlomeno del maggior numero. Se accade, come talvolta accade, che il progresso tecnico-scientifico va a vantaggio di un segmento ridotto della società, significa che c’è un problema nel sistema. È assurdo che in un mondo con tecnologie che progrediscono a ritmi vertiginosi, vi siamo ampi strati della popolazione che vedono peggiorare la propria condizione. Questo sta accadendo, da alcuni decenni, nel mondo occidentale. Dovremmo stare tutti meglio e, invece, scopriamo che i vantaggi tendono a concentrarsi in poche mani, mentre la classe media si proletarizza. Il reddito di cittadinanza, inteso alla finlandese e non all’italiana, ovvero non come sostitutivo del lavoro ma come complemento al lavoro, possibilmente non alienato, è una possibile risposta al problema. Non è l’unica possibile. C’è anche chi invoca marxianamente la socializzazione integrale dei mezzi di produzione. Quello che non mi stancherò mai di ripetere è che, qualunque sia la soluzione adottata, non si devono mortificare le eccellenze o favorire i parassitismi, né quelli delle classi superiori né quelli delle classi inferiori. Le civiltà che premiano l’intelligenza e il lavoro si sviluppano, quelle che mortificano l’intelligenza e il lavoro tramontano.