Questo contributo intende, in prima istanza, analizzare, nelle sue connotazioni specifiche, la relazione tra Comunicazione e Complessità, partendo dalla evidente necessità di chiarire cosa sia la Complessità – in quanto posta in rapporto agli ambienti digitali della comunicazione. Dobbiamo necessariamente partire, anche con l’obiettivo di fornire un quadro maggiormente chiarificato di tali questioni, dal presupposto che la Complessità sia una caratteristica strutturale, intrinseca e costitutiva degli aggregati organici, dei gruppi umani, delle relazioni e dei sistemi sociali (cfr. Dominici, 2018). Ciò equivale a sostenere che la Complessità non costituisca un elemento di complessificazione dei fenomeni sociali e comunicativi interveniente dall’esterno, a partire da fattori esogeni, bensì qualcosa che appartiene alla natura medesima dei fenomeni, alla loro strutturazione interna e costitutiva. In tal senso, si può comprendere come ogni tentativo di fare luce sui fenomeni debba muovere i propri passi a partire questo assunto di partenza.
Ora, restringendo lo spettro della nostra analisi all’ambito proprio della comunicazione, e delle forme della comunicazione, possiamo definire gli ambienti digitali della comunicazione quali “Ecosistemi” (Dominici, 1996), ossia sistemi “complessi” e aperti le cui parti sono costituite da agenti umani, le cui relazioni contribuiscono indefinitamente a modificare e co-creare l’organizzazione, e, in taluni casi la struttura, dello stesso ecosistema da essi abitato. Tali interazioni non possono essere interpretate applicando ad esse modelli di osservazione lineari, giacché come osservava Morin nella sua “ecologia dell’azione”: «Dal momento in cui un individuo intraprende un’azione, quale che sia, questa comincia a sfuggire alle sue intenzioni» (Morin, 2001). Tale affermazione deve tenere pertanto in conto le reciproche interazioni tra organismo e ambiente (agente umano- ambiente della comunicazione), cosicché l’azione entra in un universo di interazioni con il proprio ambiente, pena il mutamento delle traiettorie da esse prestabilite al momento dell’atto iniziale di compimento dell’azione; con ciò si intende, per l’appunto, definire la complessità dei processi comunicativi, predicandone l’irriproducibilità, l’incertezza e l’incapacità di stabilire previsioni come i suoi essenziali connotati.
A sostegno di questa particolare lente di lettura dei fenomeni comunicativi, George Herbert Mead, nel suo celebre testo Mente, sé e società, sembra poter offrire una spiegazione chiarificatrice. Egli chiarisce come ciascun attore sociale, entrando in interazione con gli altri, acquisisca le norme sociali di buona condotta della comunità a cui appartiene; l’“Altro generalizzato”, in tal senso specifico, altro non è che il processo di acquisizione da parte di ciascun individuo del’insieme degli atteggiamenti sociali condivisi da parte di una comunità; pertanto, è esattamente «l’assunzione dell’atteggiamento degli altri ciò che garantisce il riconoscimento dei suoi diritti» (Mead, 2018, p. 267) entro la sua comunità di appartenenza; tuttavia, nel medesimo tempo, «l’individuo reagisce costantemente agli atteggiamenti sociali, e modifica in questo processo cooperativo, la stessa comunità alla quale appartiene» (ivi, p. 268). Possiamo sostenere, sulla scorta della riflessione meadiana, come ogni individuo o attore sociale replichi all’atteggiamento organizzato della sua comunità in maniera significativamente originale e differente, contribuendo attraverso un processo di “adattamento” e “ri-adattamento” a modificare l’organizzazione dell’ecosistema sociale a cui appartiene.
In seconda istanza, intendo focalizzarmi sugli aspetti simulatori che caratterizzano le interazioni comunicative in rete, con un particolare focus rivolto alle dimensioni metacomunicative e sociali quali caratteri definitori di una comunicazione, che nella sua irriducibilità, potremmo definire come Complessa. Nel tentativo di definire il complesso rapporto di ibridazione tra dispositivi tecnologici e agenti umani, Adriano Fabris pone l’accento sulla rivoluzione indotta dai nuovi sistemi di intelligenza artificiale sui processi di comunicazione; in tal senso, «oggi la comunicazione non è più semplicemente da considerare come una trasmissione di messaggi o informazioni da un emittente a un destinatario, ma consiste nell’apertura di un vero e proprio ambiente» (Fabris, 2021, p. 53). Tali tecnologie, denominate ICTs, sono anzitutto “tecnologie comunicative”, delle quali l’uomo non può servirsi alla stregua di strumenti tecnici sotto il suo controllo; esse dispiegano e configurano, invece, ambienti, «i cui apparati e programmi che ne fanno parte hanno acquisito una certa autonomia» (ibid.). Con ciò si intende sottolineare come, all’interno di tali ecosistemi, le “tecnologie comunicative” non abbiano semplicemente potenziato ed esteso, nei termini di un’accresciuta interdipendenza e interconnessione, i processi di comunicazione tra gli “utenti umani”, bensì abbiano dischiuso ambienti in cui anche i dispositivi digitali sono in grado di comunicare autonomamente. Siamo, pertanto, dinanzi a una tentata “simulazione” degli stessi processi della comunicazione a opera di dispositivi che si definiscono “intelligenti”.
La difficoltà risiede, per l’appunto, nel tentativo di individuare e isolare tali “modalità simulatorie” messe in opera da tecnologie dell’informazione e della comunicazione vieppiù incorporate (embedding) negli stessi comportamenti umani, ossia nelle attitudini e costumi che essi sviluppano in rapporto ai suddetti ambienti comunicativi. Anche Giovanni Scarafile, nel suo libro Mind the gap. L’etica oltre il divario tra teorie e pratiche, riprendendo la ben nota teoria matematico-comunicazionale di Shannon e Weaver, rende espliciti quei caratteri specificatamente connotativi della comunicazione umana; egli riconosce infatti nell’intreccio tra individualità e significato il riprodursi dell’unicum di una comunicazione che possa definirsi umana; portando in luce, di contro, nel modello di Shannon e Weaver, i limiti intrinseci all’aspirazione di definire una lettura universale del fenomeno comunicativo, mediante il disconoscimento delle dimensioni individuale e di significato del messaggio (Scarafile, 2020) e l’appiattimento sulla dimensione tecnica del comunicazione (volta a massimizzare l’assenza di eventuali ostacoli acustici).
Niklas Luhmann, nel tentativo compiuto di analizzare la comunicazione quale operazione eminentemente sociale, dal momento che soltanto i sistemi sociali possono prodursi e riprodursi mediante i propri atti comunicativi (processo autopoietico), delinea la relazione che sussiste tra comunicazione e coscienza. Egli definisce il “sistema comunicativo” come un sistema chiuso, in quanto tale autopoietico, in grado di generare da sé i componenti di cui è costituito mediante la comunicazione stessa. Per cui affermare che “soltanto la comunicazione può comunicare” comporta la necessità di ricondurre ogni atto comunicativo alla comunicazione stessa, poiché soltanto «la comunicazione può controllare e riparare la comunicazione» (Luhmann, 2018).
Ma, procedendo a ritroso, dovremmo, forse, spiegare che cosa Luhmann intenda per “sistema”: ossia che l’unità di un sistema sorge direttamente dalla sua separazione dall’ambiente; ciò che distingue un sistema dal suo ambiente è precisamente l’insieme delle operazioni, collegate le une alle altre, che ne permettono la riproduzione ricorsiva. Già in precedenza Humberto Maturana e Francisco Varela, nella definizione del concetto di autopoiesi, avevano segnato l’impossibilità di distinguere, entro un sistema, le strutture e i processi:
Una macchina autopoietica è una macchina organizzata (definita come un’unità) come una rete di processi di produzione (trasformazione e distruzione) che produce componenti […] attraverso le cui interazioni e trasformazioni continuamente generano e realizzano la rete di processi che li producono. (Maturana e Varela, 1985).
In tal senso, Luhmann chiarisce anche come la “chiusura operativa” dei sistemi, la natura autoreferenziale e autopoietica che li caratterizza, non ne pregiudichi le interdipendenze causali con il proprio ambiente, anzi è proprio tale chiusura a permettere al sistema di aprirsi al proprio ambiente senza, tuttavia, perdere la propria identità (unità di sistema). È chiaro, dunque, come ogni sistema sia capace di (auto)riprodurre sé stesso a partire dai propri prodotti, ovvero come la comunicazione sia in grado di autoriprodurre sé stessa mediante i propri atti comunicativi, producendo ricorsivamente altra comunicazione. Ma che cos’è, per Luhmann, la comunicazione? Cosa ne definisce la sua dimensione complessa? E perché «gli uomini non possono comunicare», ma ciò è permesso soltanto alla comunicazione stessa? Pur definendo la comunicazione soltanto nei termini di un sistema autopoietico chiuso in modo autoreferenziale, egli riconosce la posizione privilegiata della coscienza – posta anch’essa nei termini di sistema dotato di una propria chiusura operativa – nella sua azione di disturbo sulla comunicazione; sistemi di coscienza e di comunicazione sono, dunque, posti in accoppiamento strutturale, gli uni accanto gli altri, ossia pur non avendo la coscienza alcuna facoltà di operare direttamente sulla comunicazione facendo rapporto sulle proprie percezioni: essa può «stimolare la comunicazione e consigliarle la scelta di questo o quel tema» (Luhmann, 2018, p. 57).
Ciò su cui intendo focalizzare l’attenzione è come tale “accoppiamento strutturale” tra coscienza e comunicazione – in quanto sistemi distinti – sia basato su una stringente selettività, giacché «il sistema della comunicazione si lascia condizionare soltanto attraverso le condizioni psichiche degli individui che prendono parte alla comunicazione» (Luhmann, 2018, p. 41); è degno di nota considerare come la comunicazione si lasci irritare soltanto dalla coscienza quale medium invisibile, poiché sulla base di tale complementarietà possiamo definire la dimensione complessa della comunicazione, la quale sempre richiede che alle spalle di ogni atto comunicativo vi sia una coscienza; ossia richiede che all’atto comunicativo segua la “comprensione”, la quale non è un mero duplicato della comunicazione, ma è frutto, appunto, di una operazione di selezione. Cosicché – secondo Luhmann – tutti i partecipanti possono introdurre le proprie percezioni nella comunicazione e le corrispondenti interpretazioni delle situazioni, che dovranno poi essere in seguito trasposte secondo le regole precipue della comunicazione. Osserviamo come il pensiero luhmanniano, pur assegnando autonomia e autosufficienza al sistema comunicazione, dia giusto rilievo alla posizione rivestita dalla coscienza e dai processi soggettivi di comprensione ed interpretazione dei messaggi.
Seppur da una visione prospettica differente, Massimo Durante, nel suo testo L’impatto delle ICT su diritto, società, sapere, descrive il complesso rapporto venuto a instaurarsi tra tecnologia e ambiente. Egli scrive che «stiamo avvolgendo il mondo intorno alle tecnologie digitali», ossia stiamo vieppiù adattando e costruendo le nostre rappresentazioni della realtà sul modo di funzionamento di dispositivi e processi che si servono di un potere che egli definisce “computazionale”. Se la tecnologia aveva in origine rappresentato uno strumento di difesa dell’uomo contro le minacce naturali del proprio ambiente, oggi tale rapporto appare essersi invertito: «Oggi la tecnologia rappresenta, per contro, ciò da cui l’ambiente dovrebbe essere difeso». La sussistenza delle nostre complesse società dell’informazione dipende dalla pervasiva diffusione di “tecnologie di terzo ordine”, nelle quali «utente, essere-tra, suggeritore», e i protocolli sono, in stricto sensu, tecnologici; pertanto, sotto il profilo etico, Durante si interroga su quale possa essere, nella dimensione attuale, il ruolo dell’Umano, entro processi e dispositivi che operano sulla base di rappresentazioni della realtà, a sua volta, determinate da meccanismi di computazione e processazione dei dati. A tal proposito, Luciano Floridi, in Pensare l’infosfera, sostiene come uno dei caratteri peculiari dell’essere umano, anzi ciò che “segnala la sua unicità”, sia la sua capacità (necessità) di conferire significato e senso alla realtà che lo circonda. Il capitale semantico, che è altra cosa da quello economico, è essenzialmente ciò che rende il nostro mondo e le nostre vite “significative” e intelligibili”; si comprende che senza tale opera di (ri)significazione, gli oggetti di cui è composta la realtà sarebbero null’altro che dei contenitori vuoti. Si può affermare, per tali ragioni, che il capitale semantico sia il più prezioso dei capitali in nostro possesso. Tuttavia – chiarisce Floridi – esso non è riconducibile a un insieme di risorse date e acquisite, bensì è un compito in continua progressione. L’unica condizione posta al suo esercizio è che ogni forma di rappresentazione sia dotata di “coerenza”, ed è ciò che garantisce l’integrità stessa del capitale semantico (poiché il significato è internamente costruito sulle fondamenta di una sua logica interna e di un suo ordine conseguente e coerente). Ora, in una “società dell’informazione” come quella in cui abitiamo, nella quale siamo sottoposti a una mole caotica e infinita di dati e informazioni, la messa in opera di tale capitale diviene ancor più importante. Floridi non manca di sottolineare come ciò non sia totalmente esente da rischi.
Vorrei, però, adesso ampliare lo spettro delle questioni problematiche. Da sempre ci siamo serviti di espedienti e protesi tecniche per incrementare il nostro capitale semantico; oggi disponiamo di dispositivi tecnologici che ci permettono di sfruttare la ricchezza del capitale semantico già disponibile, ma contribuendo anche a generarne nuove forme (un capitale semantico digitale). Ciò che intendo dire è che vi sono, oggi, tutta una serie di dispositivi digitali inediti (pensiamo ai dispositivi algoritmici che selezionano le informazioni e i contatti da seguire), da cui deriva il rischio che il passaggio a un capitale semantico (in formato digitale) ci privi delle capacità definire in maniera autonoma i nostri processi semantici, nel tentativo di operare nuove costruzioni di senso entro piattaforme e formati già predefiniti.
È necessario, infine, seguendo i binari sinora tracciati, soffermarsi, nonché enfatizzare, come il nuovo “habitat digitale” abbia del tutto trasformato finanche le dimensioni sociali e relazionali, il cui addentellato con i processi comunicativi risulta evidente; tale da privilegiare soltanto una modalità specifica di comunicazione legata vieppiù a una dislocazione spaziale-territoriale dei vincoli sociali-comunitari. In tal senso, Lee Rainie e Barry Wellmann introducono il concetto di Networked individualism. Da una parte, essi osservano che soltanto un piccolo segmento degli utenti di Internet ha «amici virtuali con i quali si incontra soltanto online» (Rainie e Wellman, 2012) e riconoscono che il possesso di un preesistente capitale sociale gioca un ruolo essenziale nella condivisione delle esperienze digitali; dall’altra, essi rilevano una relazione virtuosa tra l’uso di internet e i processi di socializzazione. La correlazione, messa in luce da Wellman, tra network offline e online, rileva quale sia la vera natura del consumo dei network mediali, la quale è ben lontana dall’essere considerata un’esperienza, per così dire, “decorporizzata”. Rainie e Wellman, peraltro, sottolineano come non vi sia nulla di virtuale legato all’utilizzo del web – tanto da porre le condizioni per l’affermazione di una “fine del virtuale”. Lo stesso concetto di “networked individualism” (coniato dallo stesso Wellman) sarebbe, secondo gli autori, prodotto dal progressivo incorporamento delle esperienze virtuali nella nostra vita quotidiana, entro una sorta di realtà aumentata che ricomprenderà entrambe. Cioè entro un «nuovo sistema operativo sociale» nel quale gli individui coltivano e “amministrano” le proprie relazioni sociali, non in quanto appartenenti a gruppi sociali circoscritti, bensì all’interno di «una rete di connessioni più ampie» che, tuttavia, rimandano soltanto ai singoli individui che le hanno costruite e generate (altamente individualizzate). Si comprende come tale nuovo impiego dei social generi nuove forme di interazioni sociali, nelle quali l’appartenenza a uno determinato (stabile) gruppo sociale non costituisce né una tappa nello sviluppo della socialità e nemmeno un fattore costitutivo dell’identità personale.
In conclusione, l’utilizzo della categoria concettuale di “Ecosistema” posta in relazione sia alle reti sociali che alle reti digitali è in tal senso funzionale a porre particolare attenzione al salto qualitativo (in termini di connessione e comunicazione) prodotto dalle “tecnologie della connessione”: facendo attenzione sempre a non confondere connessione e comunicazione (Dominici, 2019). A meno che non si voglia appiattire i processi e le forme di comunicazione a una mera trasmissione tecnica di informazioni, diviene pertanto necessario riflettere su quelle dimensioni meta-comunicative (“coscienza”, “capacità semantica”, portato soggettivo costituito dal vissuto degli agenti comunicanti) che sono a monte di tali processi e che, ancora nel presente, segnano solchi tra ciò che potremmo definire una comunicazione autenticamente umana e una comunicazione (auto)prodotta da e per mezzo di dispositivi digitali dotati di intelligenza artificiale.
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