Introduzione
In una sua opera di qualche anno fa, Marc Augé si chiedeva, significativamente: Che fine ha fatto il futuro? (2009). Questo, nell’epoca odierna, sembra quasi essere scomparso dall’orizzonte. Sono le tinte fosche, quelle della pandemia, della crisi climatica, della guerra, a dominare questi anni, con il contraltare di uno sviluppo tecnologico sempre più dirompente ma, a tratti, incomprensibile: la modernità è tramontata e il sentimento prevalente sembra essere la nostalgia del passato, la «Retrotopia», individuata da Zygmunt Bauman (2017), che ristagna in un eterno e ipertrofico presente (Bauman, 2002; Hartog, 2007). A una sempre crescente potenza degli strumenti tecnici a disposizione dell’umanità corrisponde, paradossalmente, una sempre minor percezione di poter influire sul proprio comune destino (Augé, 2009). A ciò si aggiunga l’emergere di una narrazione, in fondo senza tempo e sempre viva in ogni tempo, di tempo in tempo, interna a tutte le dialettiche generazionali (per cui vecchio è da buttar via e giovane è bello) entrata a far parte a cavallo del nuovo secolo (che è anche nuovo millennio), nel linguaggio prevalente: anche complice, probabilmente, la riduzione dello spazio-tempo indotto dall’affermarsi massivo nelle nostre vite delle tecnologie informatiche. Narrazione non di minoranza che in tempi recenti è assurta anche a narrazione politica (di maggioranza), mediata da una recentissima (in termini di storia economica e industriale) metafora metalmeccanica. Eppure, in fondo, come è stato recentemente affermato: non c’è «nulla di più vecchio di una gioventù emergente, ma è anche vero il contrario» (Sicca, 2022).
Non può non destare interesse, per le (cono)scienze sociali, questa trasformazione, che si rivela come uno dei più macroscopici cambiamenti in termini di percezione e senso della prospettiva (Sicca, 2019) che si sia verificato, perlomeno a partire da quella fase storica contraddistinta dai processi di modernizzazione industriale
Ma, prima ancora di darsi le risposte giuste, è necessario affinare le proprie domande: e per questo può essere utile guardarsi alle spalle. Per capire meglio chi sia la vittima di questa sparizione, cosa sia (stato?) il futuro, può essere utile provare a capire come questo veniva immaginato, rappresentato e desiderato nel passato. Questo nostro sguardo, per il quale indosseremo gli occhiali dell’approccio fenomenologico-costruttivista (Berger e Luckmann, 1969; Czarniawska, 2020), si rivolgerà verso la fase storica che inizia negli ultimi anni del XIX e prosegue per la prima parte del XX secolo: anni in cui si è passati da una fase crescente di sviluppo – con l’apice nella Belle époque – alla drammatica industrializzazione della distruzione a cavallo tra le due guerre, con una fase preparatoria prima della Grande guerra e una successiva che precede la Seconda guerra mondiale, fino alla drammatica esperienza della corsa alle armi nucleari che pensavamo interrotta e che di fatto gli eventi di questi primi decenni del nuovo millennio restituiscono come irrisolta, dentro e fuori l’Europa, in tutta la loro durezza e materialità.
Un contesto, dunque, quello di oggi e di domani, che ha un momento cruciale nel recente passato del primo ventennio del Novecento nel quale «tempo e mezzi di comunicazione diventano elementi fondamentali per la comprensione» (Sicca, 2019). È su di essi che ci concentreremo in questo lavoro, cercando, con una inevitabilmente sintetica carrellata, di far emergere alcuni elementi che, rispetto al futuro, siano maggiormente indicativi. Non è nostra intenzione, in questa sede, procedere a una disamina accurata di tutti i diversi modi di concepire, immaginare o raccontare il futuro che si sono sviluppati anche solo nel Novecento: sarebbe impossibile. Ciò che ci proponiamo di fare è invece di individuare alcuni elementi cardine: nello specifico, andremo a tratteggiare, partendo dal processo di sincronizzazione del tempo, come lo sviluppo dei trasporti, assieme a quello del cinema, la velocità e l’idea di progresso abbiano catalizzato, tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, la percezione che si aveva del futuro nella società occidentale.
La sincronizzazione del tempo
Per fissare un punto di partenza per questa nostra riflessione potremmo prendere la conferenza di Washington del 1884: con la Conferenza internazionale dei meridiani, tenutasi in quell’anno nella capitale statunitense, venne stabilito il meridiano fondamentale, quello passante per l’Osservatorio di Greenwich, e precisato il calcolo dei fusi orari. Stephen Kern definisce questa conferenza come «Lo sviluppo più significativo nella storia dell’uniforme tempo pubblico, dopo l’invenzione dell’orologio meccanico nel secolo quattordicesimo» (1988): questo punto di svolta segna, per l’essere umano (inizialmente solo) occidentale, il definitivo passaggio da una percezione del tempo come naturale, scandita dall’avvicendamento dei ritmi tradizionali della natura (la successione delle stagioni, la semina, il raccolto…) che ha contraddistinto l’epoca medioevale e, in parte, anche la modernità preindustriale, ad una percezione di tempo in astratto, misurato precisamente dall’orologio. Dunque, una profonda cesura nella percezione del mondo, tra un prima e un dopo: siamo nel pieno di quel processo, legato allo sviluppo delle rivoluzioni industriali, che conduce l’attività produttiva ad affrancarsi sempre più dai condizionamenti della natura organica (Sombart, 1967).
È la nascita della ferrovia – il mezzo di trasporto industriale per eccellenza – a costringere il mondo a confrontarsi con una velocità (che è tema non secondario, e sul quale torneremo a breve) sempre crescente e, dunque, con il bisogno di misurare con accuratezza il tempo, per prevedere con cura il percorso di questo nuovo mezzo e scongiurare possibili disastri. Se prima, infatti, ogni città o regione aveva la sua ora locale, ciò rischiava di generare conseguenze disastrose con l’aumento della rapidità dei trasporti, dovuto all’applicazione ad essi della potenza del vapore; essa, nelle parole di Wolfgang Schivelbusch, «appare qui come una potenza che, autonoma rispetto alla natura, ha la meglio su di essa: un’energia artificiale che si contrappone alle forze naturali» (1988). La necessità di coordinare le operazioni spinse perciò le compagnie ferroviarie americane, il 18 novembre 1883, a uniformare i loro orari di servizio, decisione che fece da apripista alla conferenza del 1884. Il trasporto e la velocità hanno dunque cambiato la percezione umana del tempo (e dello spazio): nel tardo Ottocento, il treno sincronizzava gli orologi mondiali.
Un’altra tecnologia si sviluppa quasi contemporaneamente alla ferrovia, e anch’essa cambia il mondo: il cinema, secondo Alberto Abruzzese «arte della fabbrica nel senso che racchiude in sé le forme e l’ideologia della moderna civiltà industriale» (1973), che a sua volta sincronizza l’immaginario dell’epoca. Così, mentre il treno permette di scoprire e attraversare (e colonizzare, sviluppare, cambiare e finanche distruggere) luoghi del mondo prima inaccessibili o irraggiungibili, il cinema permette di vedere e raccontare luoghi e narrazioni altrimenti irrappresentabili. Non a caso Roberto Scanarotti ha definito queste tecnologie, assieme, «le due macchine del movimento» (1997). Il susseguirsi dei paesaggi al di fuori del finestrino del treno e il simile susseguirsi delle immagini sullo schermo cinematografico, accompagnate dallo sviluppo del telegrafo, del telefono e della radio, ben rappresentano l’inusitata accelerazione degli stimoli sensoriali a cui queste tecnologie sottopongono l’essere umano all’epoca del loro affermarsi (McLuhan, 1967; Abruzzese, 2003; Frezza, 2006). E questi processi, a loro volta, intrattengono più di un’analogia con l’accelerazione degli stimoli sensoriali che l’essere umano di oggi ancor più subisce con lo sviluppo sempre più veloce della rete Internet e delle tecnologie di comunicazione contemporanee (Rosa, 2015).
Come scriveva Marshall McLuhan ne Gli strumenti del comunicare: «Gli effetti della tecnologia non si verificano infatti al livello delle opinioni o dei concetti, ma alterano costantemente, e senza incontrare resistenza, le reazioni sensoriali o le forme di percezione» (1967). E dunque «il cinema rallenta, accelera, inverte e combina i decorsi temporali; mentre telegrafo, telefono e radio creano una rete mondiale di comunicazione che ridefinisce uno spaziotempo globale» (Sicca, 2019), per la prima volta nella Storia. Allora, il mondo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, sull’onda dello sviluppo tecno-scientifico e della sua accelerazione sociale (Rosa, 2015), colpito da sempre crescenti scariche sensoriali, correva sempre più forte verso il futuro, un futuro che immaginava perlopiù roseo e nel quale pensava di poter godere dei frutti della travolgente affermazione di queste nuove tecnologie: ovvero, in sintesi, del progresso.
Il futuro tramite il progresso
L’idea di progresso è un concetto cardine: un peculiare substrato escatologico che s’intravede tra le grandi narrazioni menzionate da Lyotard (1981), e che ha rappresentato il maggior elemento di tensione verso il futuro per la modernità e non solo. Si tratta dell’ultimo lascito della concezione finalistica della Storia, che rappresenta uno degli elementi di fondo della cultura occidentale (Bury, 2019; Löwith, 2010).
Il progresso tecnologico e scientifico degli anni a cavallo tra XIX e XX secolo, nonostante la violenza della Prima guerra mondiale e della di poco successiva crisi economica del 1929, ebbe, quasi paradossalmente, uno dei suoi momenti di massima celebrazione negli anni Trenta: in particolare, nell’Esposizione Universale, denominata non a caso «A Century of Progress», tenutasi a Chicago dal 27 maggio al 1° novembre 1933, con una seconda sessione dal 1° giugno al 31 ottobre 1934. Il «secolo di progresso» a cui si riferiva il nome era quello trascorso dalla nascita della città che ospitava l’evento, il cui motto fu «Science Finds, Industry Applies, Man Adapts», e che aveva anche lo scopo di far intravedere un futuro prossimo e prospero verso cui l’innovazione scientifica avrebbe condotto un Paese ancora ferito dalla Grande depressione. È però evidente che il rimando a cent’anni di progresso – già nelle intenzioni degli organizzatori – non si riferisse soltanto all’età della città sorta sulle sponde del lago Michigan, ma, più in generale, anche al lungo periodo di sviluppo economico e industriale trascorso fin dalla metà dell’Ottocento, sviluppo che si sperava potesse essere rilanciato dopo la drammatica crisi finanziaria del 1929. Quest’esposizione, com’è evidente, veniva inaugurata appena qualche mese dopo la salita al potere del nazismo in Germania, un tassello del cupo mosaico degli anni successivi, in cui le migliori speranze andarono tragicamente deluse.
Le esposizioni universali dell’epoca restano però eventi molto rappresentativi: sono uno degli elementi che compongono il processo con cui il mondo si trasforma da un insieme di luoghi fortemente separati – locali – a un unico luogo globale, processo che – simboleggiato, per quanto attiene allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, dalla famosa espressione di Marshall McLuhan, villaggio «planetario» (2011) o «globale» (1967) – diventerà uno dei caratteri dominanti del tardo XX secolo. Esse furono innanzitutto concepite come spazi in cui i prodotti dello sviluppo tecnologico-industriale venissero mostrati al mondo: la prima, denominata «Great Exhibition of the Works of Industry of All Nations», si tenne nel 1851 a Londra e aveva lo scopo di presentare la leadership tecnologico-industriale dell’Impero britannico. Sin da questa prima occasione, e fino all’esposizione di Chicago, la centralità nelle grandi esposizioni (che si susseguivano a cadenza irregolare) era riconosciuta agli avanzamenti tecnologici e alle invenzioni. In una successiva fase, le esposizioni universali hanno dato maggiormente risalto, rispetto al solo sviluppo tecnologico, al progresso culturale e sociale, mentre dall’appuntamento del 1988 in poi si sono caratterizzate principalmente come vetrine in cui il Paese organizzatore potesse mettersi in mostra e migliorare la propria immagine, pur mantenendo un netto orientamento al futuro.
Balza agli occhi che proprio tra i mezzi di trasporto possiamo trovare uno dei protagonisti di queste esposizioni, prodotti dello sviluppo tecnologico che rappresentano, per la loro velocità, potenza o estetica la tensione al futuro dell’epoca: il treno. Questo si presenta, però, a partire dagli anni Trenta, in una nuova forma: quella degli streamliners. Dopo i primi studi di aerodinamica applicati al campo ferroviario in Francia, all’inizio del Novecento, fu negli anni Trenta che la pratica di costruire carenature aerodinamiche rinnovò l’immagine del treno. Proprio in occasione dell’Esposizione universale del 1933 vennero presentati i primi due streamliners, mezzi leggeri e veloci a trazione diesel-elettrica e dall’estetica innovativa e rispettosa dei dettami dell’aerodinamicità, la cui estetica era fortemente debitrice dello stile Art Déco. Tra questi vi era il celebre Pioneer Zephyr costruito dalla Budd in acciaio inossidabile (Schafer e Welsh, 1997): una freccia d’acciaio, veloce e lucente come non si era mai vista prima, che incorporava e restituiva assieme le idee di velocità e di progresso.
L’immagine del treno, dunque, si rinnovava assumendo forme eteree richiamanti la velocità e la leggerezza, grazie all’introduzione di carenature che occultavano gli elementi meccanici. In questo campo, designer come Raymond Loewy e Richard Dreyfuss (oltre che i committenti), diventati in breve vere e proprie celebrità, facevano a gara tra chi proponeva le creazioni più ardite (Solomon, 2015), e presto la moda dello streamlining travalicò i confini dell’industria ferroviaria, estendendosi alle automobili, agli arredamenti, e finanche agli oggetti di consumo.
Nell’evocare accelerazione e innovazione, nulla era più efficace di queste nuove forme, curve e filanti, che presto si diffusero ben oltre i confini statunitensi e sembravano rappresentare il futuro del trasporto. Lo testimonia un’altra esposizione universale, quella tenutasi a New York tra l’aprile del 1939 e l’ottobre del 1940, e il cui motto fu «Building the World of Tomorrow». Tra i protagonisti di questa mostra vi fu, nuovamente, un treno: si trattava del primo veicolo ad alta velocità a trazione elettrica, l’elettrotreno italiano tipo «200» che (anche per la volontà propagandistica del regime al potere in quegli anni) aveva conseguito svariati record, tra cui quello mondiale di velocità del 1939 ottenuto raggiungendo i 203 km/h.
È infatti il richiamo della velocità l’altro tassello della tensione e dell’immaginario orientati al futuro, elemento che si lega allo sviluppo tecnologico e all’estetica per formare un complesso reticolo di significati, una vera e propria «ideologia del progresso attraverso lo sviluppo della velocità dei trasporti» (Virilio, 2005). Ma l’idea di velocità, come quella di progresso, non è certo meramente tecnologica o storicamente connotata. Quindi il «futuro» stesso non è relegabile alla sola prova di realtà. È invece questione d’ogni tempo, proprio in relazione a quella dialettica tra percezione del cambiamento e senso della prospettiva di cui si diceva; probabilmente e almeno in parte punta dell’iceberg di quella tensione, che è anche biologica, ormonale e di orizzonte di vita materiale, prima ancora che di orizzonte esistenziale, che lega inesorabilmente le generazioni, padri e figli, parricidi e infanticidi: nodo gordiano di certo impossibile da spezzare con semplicismi rottamatori.
Il futuro nella velocità
Il mito della velocità è il nome di una mostra, tenutasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal febbraio al maggio del 2008, durante la quale sono stati esposti assieme diversi prodotti del design, dell’arte e dell’industria italiani: dalle automobili ai quadri, agli oggetti di consumo e ad altro. Tutti questi prodotti sono legati dal tratto comune di condividere un legame con il concetto, appunto, di velocità. Nell’introduzione al catalogo della mostra i curatori, Eugenio Martera e Patrizia Pietrogrande, sottolineano il nesso tra velocità e modernità (2008), due costrutti che sembrano imbevuti l’uno dell’altro. Nel titolo di questa mostra sembra di trovare un’eco delle parole di Paul Adam, scrittore francese, che, a inizio Novecento, usò un’espressione simile: egli scrisse di un vero e proprio “culto della velocità” (1907).
La ricerca di una velocità sempre crescente iniziò già nell’Ottocento, con una corsa allo sviluppo di macchine sempre più potenti e rapide. Tra queste, fu ancora una volta innanzitutto il trasporto ferroviario a mostrare le rivalità più aspre, tra compagnie ferroviarie rivali e finanche, nel caso europeo, tra Stati confinanti (Wolmar, 2011).
Qualcosa di analogo lo racconta nuovamente Stephen Kern, facendo riferimento alla competizione tra le compagnie di navigazione transatlantica: la corsa alla conquista del Nastro Azzurro, il trofeo assegnato all’imbarcazione capace di attraversare più velocemente l’Atlantico, vide nel 1897 la vittoriosa sfida della Germania alla compagnia inglese Cunard, che ne era detentrice (Kern, 1988). A quel punto, sottolinea Kern, era in gioco il prestigio nazionale dell’Inghilterra, il cui governo sovvenzionò la costruzione di una nave in grado di riprendersi il titolo, innescando una nuova competizione tra le diverse compagnie inglesi che, qualche anno dopo, ebbe un ruolo determinante nell’affondamento del Titanic: andare veloce può avere un prezzo altissimo. Tale era però l’attrazione per la velocità che «il pubblico richiedeva velocità maggiore ogni anno e rifiutava di frequentare le linee più lente» (Kern, 1988). Anche Italo Calvino ha messo in evidenza il legame velocità-progresso, in un passaggio delle sue Lezioni americane: «Il secolo della motorizzazione ha imposto la velocità come un valore misurabile, i cui records segnano la storia del progresso delle macchine e degli uomini» (2022).
La velocità, tra il tardo Ottocento e i primi del Novecento, esercitava dunque un fascino crescente, che non solo non lasciava indifferente il pubblico generico, ma riguardava anche intellettuali e artisti. Tra questi si collocavano i membri della celebre corrente del Futurismo: a loro si deve l’istituzione del più eloquente collegamento tra la velocità e il futuro, a partire dal nome che scelsero e da quanto rappresentarono nel proprio Manifesto di Fondazione del Futurismo (Marinetti, 2015). Questo, scritto da Filippo Tommaso Marinetti e pubblicato inizialmente a Parigi, su Le Figaro, nel 1909, richiamava e mescolava suggestioni sia della ferrovia (dalla locomotiva alle gallerie), sia di un nuovo mezzo di trasporto, che presto si sarebbe affermato come uno dei più rappresentativi del Novecento: l’automobile. In altri testi del futurismo sono proprio l’automobile e l’aeroplano a prevalere sul viaggio in treno: questi nuovi veicoli, più rapidi e direttamente governabili dal singolo individuo, catalizzavano con più forza le suggestioni della velocità e del movimento che costituiscono il soggetto centrale dell’estetica futurista (Ceserani, 2002).
Indipendentemente dal tipo di prodotto artistico, che sia un quadro, una lirica o altro, l’arte futurista è pervasa di immagini di mezzi di trasporto, treni, aerei e automobili, che rappresentano movimento, potenza e soprattutto velocità; e se ciò, inizialmente, destò sorpresa e scandalo, in breve tempo mostrò di saper intercettare le percezioni e il gusto del pubblico dell’epoca. La presenza del mezzo di trasporto nell’arte di quegli anni, in breve tempo, si espanse ben oltre i confini italiani e delle avanguardie artistiche, diventando un fenomeno che coinvolse artisti e autori francesi, inglesi e statunitensi. Secondo Eric Hobsbawm, lo sviluppo delle avanguardie artistiche nel periodo precedente la Prima guerra mondiale fu uno spartiacque profondo per l’arte stessa (2005); e questo fenomeno, peraltro, anticipò «di parecchi anni l’effettivo crollo della società borghese liberale», che segna l’inizio del «Secolo breve» (Hobsbawm, 1997).
La corsa verso il futuro, l’accelerazione sociale e il sempre più spinto progresso tecnologico-industriale della società tardo ottocentesca e della prima parte del Novecento ebbero infatti anche, come corollari inseparabili, le due guerre mondiali, contraddistinte dall’industrializzazione della morte e della distruzione. Ciononostante, l’idea di futuro non era ancora affondata per sempre.
Conclusioni
La fase più che trentennale che intercorre tra il 1914 e il 1945, cioè tra l’inizio della Prima e il termine della Seconda guerra mondiale, rappresenta un’unica lunga stagione di guerre, tensioni internazionali e crisi. E però all’interno – cronologicamente parlando – di questa stagione si collocano alcune delle più rilevanti (per le riflessioni che qui abbiamo condotto) trasformazioni, destinate a lasciare il segno fino – perlomeno – alla fine della modernità, e oltre: è infatti nel primo ventennio del Novecento che si affermano gli studi di Albert Einstein, fondamentali innanzitutto per la nostra concettualizzazione di tempo, spazio, moto e velocità: «Con Einstein, il moto è relativo […]. Quindi, per due osservatori in moto relativo, le descrizioni spaziotemporali degli eventi sono diverse, ma la velocità della luce è la stessa, le distanze spaziali sono diverse (contrazione delle lunghezze), gli intervalli temporali sono diversi (dilatazione dei tempi), le velocità minori di quella della luce sono diverse)» (Sicca, 2019). E poi, la percezione, che acquista nuovo significato alla luce della scoperta, da parte di Sigmund Freud, di un luogo conflittuale interno all’essere umano, l’inconscio.
Così, nonostante le drammatiche vicende delle guerre mondiali, altri modi di immaginare, rappresentare e desiderare il futuro sarebbero emersi, alimentati dalle trasformazioni nella comprensione di tempo e spazio, dalla scoperta dell’inconscio e dell’indeterminazione, per poi anch’essi attraversare nuove crisi. L’idea di un progresso inarrestabile, nella seconda metà del Novecento, non era definitivamente tramontata: nel periodo successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, caratterizzato dal boom economico e dal baby boom demografico, si ripresentò l’ipotesi di uno sviluppo progressivo, peraltro, stavolta, esteso a livello mondiale. Non si trattava però, in questo caso, della prefigurazione di un singolo futuro, ma di una differenziazione, nelle confliggenti prospettive del libero mercato, del socialismo reale, e della liberazione dalla dominazione coloniale per tanti territori fuori dai due blocchi, fin quasi alla contemporaneità.
Non possiamo, in questa sede, andare oltre. Non era nostra intenzione – l’abbiamo scritto sin dall’inizio – né nelle nostre possibilità rispondere alla domanda che pone Augé, con la quale abbiamo aperto questo testo: «che fine ha fatto il futuro?». Ma confidiamo di aver individuato qualche elemento – tra tempo, comunicazioni, progresso e velocità – utile a mettere a punto un identikit dello scomparso. A nostro avviso, tuttavia, «le risposte a questioni così rilevanti risiedono nell’impalpabile intreccio che tiene insieme scienza, cultura e organizzazione e nel ruolo della tecnologia, che trasforma i mezzi di comunicazione» (Sicca, 2019) e le percezioni. Ieri, come oggi, cambiano i modi di percepire la realtà, modificando tutti noi e ciascuno, fino a incidere su ogni forma di organizzazione sociale, che è immersa «in un’architettura relazionale per definizione intersoggettiva» (Sicca, 2022).
Infine, una segnalazione, a proposito del legame tra arti e futuro, che qui abbiamo brevissimamente accennato con il riferimento al Futurismo. Il prossimo numero di questa rivista, Futuri 19, ospiterà contributi accomunati proprio da tale fil rouge, originati dalla call for papers intitolata «Corpi performativi: il progetto verso il futuro, fra arti multimediali e aurore digitali», con il patrocinio morale di puntOorg – International research network.
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