Con questo breve articolo mi ripropongo di analizzare i cambiamenti provocati nel sistema istituzionale dalla crisi pandemica, nonché delle possibili conseguenti trasformazioni permanenti. Questo, anche tenendo conto del fatto che l’Unione europea ha sviluppato nel frattempo importanti strategie politiche in diversi settori e ha, proprio in seguito alla pandemia, capovolto la politica di cosiddetta austerità che era sembrata un caposaldo estremo della politica economica europea. In qualche modo, l’Unione ha recuperato alcuni valori importanti quali, primo fra tutti, la solidarietà, fino al punto di lanciare una strategia di debito comune.
Altri tempi
Cominciamo dal passato. La storia della costruzione europea ci mostra come il suo sistema istituzionale non sia insensibile alle «crisi» e ai cambiamenti. Questo avviene talora attraverso modifiche dei Trattati, talora senza bisogno di una modifica o, almeno, di una modifica generale dei medesimi. Si pensi al periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del Novecento. La situazione internazionale e quella interna imponevano un rinnovamento della Comunità europea fondata venti anni prima. La crisi monetaria internazionale spingeva la Comunità a porsi il problema di un’unificazione monetaria (si veda il rapporto Werner dell’8 ottobre 1970), mentre la relativa distensione internazionale sollecitava la ricerca di una politica estera comune (si ricordi il Rapporto Davignon del 1970). In questo quadro, anche le guerre arabo-israeliane esigevano un’attenzione comune alla politica energetica. D’altra parte, lo stesso successo del mercato interno faceva sorgere nuove esigenze, in particolare in materia di riequilibrio economico e sociale fra le diverse parti della Comunità, di riorganizzazione della politica agricola, di attenzione all’ambiente e al sociale.
Al tempo stesso tre nuovi Stati aderivano alla Comunità. Queste nuove dimensioni e responsabilità della Comunità non furono accompagnate da una generale riforma del sistema istituzionale, secondo lo slogan «tutto il Trattato, nient’altro che il Trattato» che pareva unire tanto gli “eurotiepidi”, timorosi di una perdita di controllo da parte dei governi degli Stati membri, quanto, con rilevanti eccezioni, i più entiusiasti della costruzione europea, i quali temevano, al contrario, un indebolimento – nel caso di un nuovo Trattato – del ruolo delle istituzioni rappresentative dell’interesse comune. Tuttavia, lo schema istituzionale finì per essere sostanzialmente modificato, anche se in un modo che si rivelerà, verso la fine degli anni Settanta, insufficiente.
In particolare, fin dal 1969 (vertice dell’Aja) e più strutturalmente dal 1972 (vertice di Parigi) e dal 1973 (vertice di Copenhagen), si giunse alla formalizzazione, al di fuori delle disposizioni del Trattato, del Consiglio europeo, con lo scopo principale d’introdurre nuove responsabilità per la Comunità europea. Il secondo punto riguardò l’approvazione dei Trattati di bilancio del 1970 e del 1975, e prima ancora del Trattato di Lussemburgo sulle risorse proprie della Comunità europea, indispensabili per garantire un controllo parlamentare sul bilancio comunitario, che diventava, appunto, sempre più importante proprio in virtù delle nuove responsabilità. E, quando ci si rese conto che le nuove competenze implicavano un’azione politica molto più ampia di quella prevista dai Trattati originari, fu adottato un Atto che introduceva l’elezione diretta a suffragio universale del Parlamento europeo, che avrà effettivamente luogo nel 1979. Tuttavia, le limitate competenze politiche e legislative del Parlamento non furono mutate; a questi rimase comunque un importante potere di bilancio. E tuttavia, non si riuscì a dare una risposta adeguata all’esigenza di controllo democratico e di efficacia.
In questa direzione, al contempo i governi e le istituzioni adottarono negli anni ‘74 e ‘75 una dichiarazione sul rispetto dei diritti fondamentali (in questo sollecitati dalle numerose sentenze della Corte di Giustizia fra il 1969 ed il 1974) ed una sulla democrazia.
È interessante notare che proprio negli stessi anni i governi lanciarono anche una serie di riflessioni e discussero il rapporto Tindemans (1976), che cercava di prefigurare un’Unione europea più democratica ed efficace. Benché le riforme dei Trattati fossero alquanto limitate per la parte istituzionale, si creò una situazione nuova, ma incerta, che si sbloccò solo nel decennio successivo con l’Atto unico europeo del 1986 e poi col Trattato di Maastricht.
Attraverso questa panoramica storica, intendo mostrare che, in periodo di evoluzione della costruzione europea, le istituzioni, pur senza subire radicali trasformazioni quanto ai loro poteri formali, possono evolvere secondo quelle che appaiono essere le necessità prodotte dalla crisi, sia per decisione (e allora se vi è modifica dei Trattati ci si può spingere molto in là, cambiando l’equilibrio istituzionale formale), sia per prassi, in quanto l’una o l’altra istituzione prendono delle responsabilità supplementari. Questo può avvenire sia per quel che riguarda propriamente la relativa prevalenza dell’una o dell’altra istituzione, sia per la modifica delle norme di merito che, di per sè, possono sviluppare il ruolo di un’istituzione.
Ai giorni nostri
A riprova del discorso svolto nel paragrafo precedente, si potrebbe ricordare che, pur senza alcun cambiamento delle regole istituzionali, a partire dal 2009 il Consiglio europeo ha assunto un ruolo estremamente rilevante per quel che riguarda la gestione delle crisi. Tale ruolo non è particolarmente previsto dal Trattato, ma fu nondimeno esercitato, con un’evidente accelerazione delle sue riunioni, volte a trattare anche i dettagli della risposta alla crisi, in particolare economico-finanziaria. Le altre istituzioni furono messe in una condizione di sostanziale minorità, trascurandone spesso le posizioni – come fu per il Parlamento europeo – o considerandole, nel caso della Commissione, come pure esecutrici delle decisioni del Consiglio europeo (al punto che nell’estate del 2009 gli Stati rifiutarono di convocare una riunione del Consiglio europeo proposta dal Presidente della Commissione per discutere della crisi, partendo dalla formula «salvaguardare il capitale sociale», che significava dare priorità all’idea di favorire il mantenimento dell’occupazione).
Ma la posizione del Consiglio europeo e degli Stati andò ben oltre una semplice espansione delle competenze di un’Istituzione dell’Unione, per travalicarla e passare nel puro campo delle relazioni internazionali, fondate sulla forza e sulla salvaguardia essenzialmente degli interessi nazionali. Questo è facilmente dimostrato sia dalle relazioni “pseudo–etiche” introdotte nella relazione fra Stati, alcuni dei quali ritenuti “virtuosi” ed altri altrettanto “peccatori”, col diritto «morale» dei primi d’imporre le proprie posizioni, cioè politiche di austerità per i «peccatori», forti della forza economica per farlo. Evidentemente non mi pare sia questo il ruolo di un’Istituzione dell’Unione. Non solo, ma le stesse decisioni del Consiglio europeo furono eseguite non solo da istituzioni comunitarie, ma, per esempio, da una Troika della quale faceva parte anche il Fondo Monetario Internazionale, istituzione certo non dell’Unione europea. A quel punto si poté parlare di una sorta di rinato «Congresso di Vienna» dominato per l’essenziale da una sola potenza, il cui potere si presentava anche come eticamente rilevante.
Questa fase sembra ormai superata, tant’è che in un recente Consiglio europeo (26 marzo 2021) la Cancelliera tedesca ha parlato di una «sovranità europea», il che sembra di nuovo ben delineare, in controtendenza in rapporto all’internazionalizzazione promossa durante la crisi, la posizione degli Stati come membri dell’Unione rispetto a quella di soggetti internazionali in senso tradizionale. Tuttavia, il ruolo centrale del Consiglio europeo sembra essersi riprodotto anche dopo con la Pandemia.
Nel frattempo, anche grazie all’intervento massiccio della Banca Centrale Europea, sotto la presidenza Draghi, l’idea di austerità è andata stemperandosi, nonostante il mantenimento delle regole del Patto di stabilità e del fiscal compact. In sostanza, senza mutualizzare il debito degli Stati, la BCE ha consentito all’acquisto sul mercato secondario di debiti degli Stati membri. Cioè la strategia politica costruita fra il 2009 e il 2013 dagli Stati più forti ha perso, anche per il palese atteggiamento ostile dei cittadini, e si è avviata alla decadenza. Ed è anche per questo che la situazione che si è creata con l’arrivo della pandemia ha potuto essere fronteggiata in tutt’altro modo. Certo, restano i nostalgici dell’austerità (vedi la recentissima sentenza del Tribunale costituzionale tedesco in materia di recovery fund), ma la politica degli Stati membri e dell’Unione va in una direzione diversa. Si badi, non si tratta solo di bontà d’animo o di ascolto dei cittadini; e neanche solo di salvaguardia della nostra economia, ma anche di un cambio di strategia internazionale. L’EURO è finalmente visto al livello europeo come una moneta internazionale, alla stregua del dollaro. Valga per tuti l’intervento del Presidente del Consiglio Draghi al Consiglio europeo nel quale preconizzava un sistema ordinario e non emergenziale di eurobond (senza usare questa parola un po’ tabù) proprio con lo scopo di affermare l’EURO come moneta internazionale, evocando gli strumenti usati dagli Stati Uniti per assicurare al dollaro tale statuto.
Si badi però che l’opportunità di usare diversamente (o forse di modificare) il sistema istituzionale è oggetto di discussioni e negoziati fin dal 2017, sessantesimo anniversario della CEE, attraverso una dichiarazione delle istituzioni che già vedevano la necessità di tale riforma, sospinti allora dalla difficoltà elettorale (ma non solo) dei partiti tradizionalmente europeisti. Nel frattempo, seguendo una linea già avviata in precedenza (con una pietra miliare che fu la COP 21, ventunesima Conferenza delle parti alla Convenzione di Rio del 1992 che si è tenuta a Pargi nel dicembre 2015 ed ha portato alla stipula di un sia pur «leggero» trattato in materia climatica), l’Unione, su proposta della Commissione, ma con una forte incitazione da parte delle altre istituzioni e dagli Stati membri aveva lanciato un’iniziativa in materie di ambiente e di riscaldamento climatico di grandi dimensioni e subito coronata da alcuni successi, che metteva sul tappeto decisioni di prospettiva assai importanti, fino a fare dell’ambiente una delle strutture portanti di «Next generation» – successore sul piano lessicale del recovery plan (Conclusioni del Consiglio europeo 17-21 luglio 2021). Ugualmente, proprio grazie a quella dichiarazione è stato lanciato un programma relativo alla difesa, timido, certo, ma molto meno timido che nel passato (si veda la scheda sulla Cooperazione dell’UE in materia di sicurezza e difesa del Consiglio dell’Unione sul sito istituzionale). E si potrebbero indicare ulteriori e non minori aspetti della politica europea rivisti e rivalutati nel frattempo. La presidenza di Trump ha poi spinto gli europei a riscoprire il concetto di «sovranità europea» evocato sopra.
Il primo ad accorgersi in modo formale e ampio della necessità di riforme istituzionali è stato il Parlamento europeo con risoluzioni del 2016 e del 2018 (in particolare, la risoluzione del 16 febbraio 2017 sul miglioramento del funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona).
Lo scoppio della pandemia ha poi messo l’Unione di fronte a un’urgenza innegabilmente comune da affrontare stirando un po’ le disposizioni del Trattato. È stata la «goccia che ha fatto traboccare il vaso» e l’Unione ha lanciato la conferenza cittadina sul futuro dell’Unione europea, pur escludendo la possibilità di una riforma dei Trattati a breve scadenza. Vedremo i risultati, ma è evidente che le istituzioni rischiano di essere un po’ stravolte, sia pure nel quadro delle disposizioni del Trattato. Non è detto che ci si potrà fermare a queste riforme. Per il momento, possiamo rilevare alcune innovazioni che, in parte, si sono realizzate e in parte potrebbero esserlo in prospettiva, a partire dalla situazione che si è creata e che potrebbero anche fare parte delle conclusioni della Conferenza cittadina.
Il Consiglio europeo
Se è certo che dal 2009 i Trattati non sono stati cambiati, inclusa la parte relativa alle istituzioni e ai loro poteri, tuttavia è al contempo lecito rilevare il fatto che alcune novità «comportamentali» ci sono state. Si diceva del Consiglio europeo. Abbiamo visto come durante la crisi finanziaria, il Consiglio europeo abbia assunto la direzione puntuale delle operazioni, lasciando al resto del sistema istituzionale «le briciole». E, in più, ha assunto compiti non previsti anche al di fuori del sistema stesso. Se il «sovranismo europeo» ha ripreso un certo vigore, cosicché gli Stati, almeno riuniti in Consiglio europeo, non cercano altri sistemi giuridici o politici per risolvere i loro problemi, è altrettanto evidente che, con la crisi della pandemia, è rimasta la stessa puntuale attenzione alle azioni dell’Unione in materia, attraverso riunioni frequentissime del Consiglio europeo stesso.
Nell’attuale crisi, nondimeno, il Consiglio europeo sembra appoggiarsi di più sul sistema istituzionale vigente, particolarmente sulla Commissione. Nella situazione attuale è immaginabile che l’intervento del Consigio europeo sia dovuto anche alle ambiguità del Trattato in materia di salute; ma tant’è: nuova crisi presa in mano da parte del Consiglio europeo. In altri termini, è abbastanza evidente la non eccezionalità della risalita delle decisioni in caso di crisi al Consiglio europeo. Non starò qui a giudicare se si tratti di una buona cosa o se, invece, si assista a un relativo «spodestamento» del sistema istituzionale. Mi preme solo sottolineare la relativa novità. Probabilmente, anche nelle maglie del Trattato non esiste una modalità per trattare alcune crisi e, dunque, l’intervento del Consiglio europeo diventa indispensabile. Nel merito, il Consiglio europeo ha capovolto l’ideologia dell’austerità, senza che però questo comporti un «liberi tutti». Delle regole circa la coerenza dei bilanci e la lotta all’inflazione dovranno a un certo punto tornare in vigore, ma (almeno si auspica) non potranno più essere quelle precedenti, inadatte alla nuova realtà. Ancora nel merito delle decisioni, si deve constatare che il Consiglio europeo ha abbandonato il tabù del «debito comune» e dei conseguenti titoli di credito europei collocati sul mercato internazionale e garantiti dal bilancio dell’Unione. Fino a ieri, la parola «eurobond» era assolutamente impronunciabile. Oggi c’è già una decisione di emettere bond comuni per finanziare il «Next Generation EU». Non solo, ma già al Consiglio europeo di marzo 2021 qualche membro ha «osato» proporre l’indebitamento comune come strategia di politica internazionale.
È evidente, in questo contesto, che il Consiglio europeo, in seguito a questa crisi, rafforza il suo ruolo nella gestione delle crisi che coinvolgono l’insieme dell’Unione. Al tempo stesso, con l’introduzione di una nuova responsabilità dell’Unione, non certo prevista dai Trattati, quella di contrarre debito internazionale di dimensioni strategiche, il Consiglio europeo tende a ricoprire un ruolo centrale, come fu negli anni ‘70, con l’introduzione di nuove competenze acquisite dalla Comunità senza modifica dei Trattati.
Qui sorgono due interrogativi.
In primo luogo, è necessario constatare come dall’inizio di questo secolo, il mondo si trascini da una crisi all’altra. Non parlerò delle guerre, eventualmente asimmetriche, che pure sono numerose, ma mi riferirò alle crisi «civili», le torri gemelle, la crisi dell’immigrazione massiccia, la crisi finanziaria e ora la crisi sanitaria. Cominciano a non essere più semplicemente delle «crisi», ma diventano sempre più elementi essenziali e ricorrenti della vita politica. Il Consiglio europeo assume così una veste non solo di luogo di orientamento delle politiche dell’Unione, ma anche quello esecutivo di solutore delle crisi. In che modo questa realtà potrebbe modificare l’equilibrio istituzionale?
In secondo luogo, il Consiglio decide in genere «per consenso»; questo vuol dire che le sue scelte non si potrebbero fare in assenza di una visione comune dei problemi e delle loro soluzioni; cosa di per sé già assai complessa. Tuttavia, finora il sistema aveva funzionato perché almeno sui principi di fondo vi era un relativo accordo. Questioni come la democrazia, i diritti fondamentali e la legalità sembravano scontate e certamente aiutavano anche nelle scelte. Ormai vi sono Stati (e potrebbero essercene in futuro) che non condividono alcuni di questi principi che definirei strutturali. Non è come l’opposizione pur dura della Thatcher che, alla fine, poteva ritrovarsi in un accordo anche se tendeva a ridurre la portata e l’effetto delle proposte sul tavolo. Certo, le contraddizioni si superano, ma a che prezzo?
D’altra parte, in questo periodo è difficile immaginare una riforma dei Trattati che delimiti i compiti del Consiglio europeo e definisca procedure per affrontare le crisi, né, tantomeno, che tolga il vincolo dell’unanimità o del consenso al Consiglio europeo.
Tuttavia, il dinamismo del Consiglio europeo, nonostante le recenti evoluzioni, rischia, secondo diversi autori e secondo il Parlamento europeo di mettere in causa l’equilibrio istituzionale dell’Unione (Giraud, 2021; EPRS, 2021).
Il Parlamento europeo (e il Consiglio dell’Unione)
La modifica della strategia in materia di debito comune comporta certe conseguenze di non poca importanza anche per altre istituzioni. In realtà, il debito comune si appoggia sul bilancio comunitario, sia per decidere della sua concreta creazione, sia per decidere dell’impiego del suo prodotto. Il merito del debito comunitario, infatti, è proprio quello di appoggiarsi sul bilancio dell’UE e, dunque, sul potere dell’insieme della medesima Unione. Da qui deriva la convenienza economica di tale debito ed il suo eventuale ruolo internazionale. Non si può certo immaginare un debito comune di queste dimensioni fuori bilancio e soggetto all’alea del rimborso eventualmente conflittuale da parte dei singoli Stati, né si può immaginare una massa importante di denaro che sfugga ad un controllo parlamentare. D’altra parte, lo stesso Parlamento deve esprimersi sulle masse monetarie previste per il prossimo periodo (programmazione finanziaria) e poi approvare, in accordo col Consiglio e su proposta della Commissione, certo, il bilancio annuale.
C’è di più. Un tale bilancio, per la sua ipotetica dimensione, non avrà solo, com’è grosso modo al momento attuale, una pura funzione di autorizzazione di spese ed entrate che, pure importanti, hanno un peso macroeconomico abbastanza scarso, ma anche, proprio una funzione macroeconomica che si aggiunge a quella dei bilanci statali. Ne risulta un rafforzamento della responsabilità del Parlamento europeo e, forse, una necessità di una maggiore cooperazione con i Parlamenti nazionali. Nell’immediato, il Parlamento si è solo espresso a favore del debito comune ed è intervenuto nell’approvazione del piano di rilancio. Un discorso analogo vale anche per il Consiglio dell’Unione, le cui strutture settoriali debbono darsi una maggiore capacità di coerenza.
Anche qui vi sono necessariamente degli interrogativi di tipo istituzionale.
È chiaro che il Parlamento, se può intervenire sulle politiche macroeconomiche, avrà una maggiore responsabilità. È possibile esercitarla fino in fondo con un Parlamento i cui membri sono eletti solo su base nazionale? Come potranno poi essere chiamati responsabili per le decisioni comuni, per questo tipo di decisioni comuni, se debbono rispondere solo ad elettori nazionali?
La seconda domanda è correlata alla prima. Sarà possibile costruire una volontà politica di questo tipo senza la presenza di un dibattito politico al livello europeo fra le diverse forze politiche, se ciascuna di esse continuerà a non avere un vero luogo di riflessione e decisione comune al livello europeo? Perché i partiti politici europei hanno una struttura interessante, ma assai poco significativa sul piano politico.
Sul piano del bilancio, il Parlamento ha però un grande vantaggio: dispone di una struttura amministrativa tradizionalmente molto efficace e, sovente, coordinata con i relativi servizi dei Parlamenti nazionali, così come esiste un sistema di relazioni fra commissioni parlamentari competenti del Parlamento europeo e di quelli nazionali. Quali sviluppi si potranno immaginare per rendere più efficace tale sistema?
Un altro elemento di non poca importanza concerne il rapporto col Consiglo europeo. Certo, esistono delle relazioni importanti fra Parlamento e Consiglio europeo, ma si risolvono in dibattiti periodici accesi, ma non molto capaci d’incidere sulle decisioni del Consiglio europeo: nel futuro, se si tratta di manovrare somme così ingenti e con effetti politici interni e internazionali, ci si potrà limitare a questo?
Quanto al Consiglio dell’Unione è certo che il suo rapporto col Parlamento potrà essere aggiornato proprio in relazione agli sviluppi che si potranno avere in Parlamento. Ovviamente, sarà interessante vedere che ruolo assumerà l’eurogruppo, poiché è certamente vero che la politica del debito comune concerne tutti gli Stati, ma è anche vero che questo debito si esprimerà in EURO, almeno in gran parte e potrebbe avere ripercussioni positive (o, malauguratamente, negative) sul valore e sulla stabilità dell’EURO.
La Commissione europea
La Commissione sembra riprendere un ruolo di proposta politica rilevante, se si considera che, ormai, sul tappeto si trovano azioni riguardanti la difesa, l’energia, l’ambiente, la politica economica, un certo grado di politica industriale rispetto alle quali la Commissione esercita nel concreto l’iniziativa politica e legislativa. La pandemia e le relative conseguenti decisioni del Consiglio europeo sembrano dare un ruolo più importante alla Commissione sia per quel che riguarda la proposta, sia per quel che riguarda l’esecuzione delle decisioni. Al ruolo di proposta succitato si aggiunge la capacità di avanzare proposte in materia di crisi, anche coraggiose e non necessariamente di semplice esecuzione di disposizioni del Trattato stesso. Il «Next generation EU» è frutto di proposte della Commissione, anche se la sua adozione di principio è stata decisa dal Consiglio europeo, con l’approvazione, proprio per la loro importanza e per la loro non diretta conseguenzialità rispetto alle competenze attribuite dal Trattato, da parte dei Parlamenti nazionali, e le sue concrete conseguenze si realizzano attraverso procedure di bilancio o legislative.
Si badi che, rispetto a quanto detto, questa responsabilità crea un «pacchetto» di compiti della Commissione che ne sottolinea fortemente il carattere politico.
Sul piano esecutivo, si tratta anche di assumere la responsabilità di collocare grandi prestiti sul piano internazionale, valutandone tutte le conseguenze sul piano politico e di politica estera in particolare.
Inoltre, la Commissione dovrà «distribuire» i fondi agli Stati membri ed alle diverse politiche comuni, in quantità assai maggiore e con una difficoltà di controllo acresciuta. Un vantaggio deriva, per ora, dal fatto che «Next generation EU» prevede settori abbastanza precisi di spesa proprio nei campi nei quali la Commissione ha mostrato finora più dinamismo; ma l’efficacia dei nuovi fondi in una prospettiva di rilancio economico e sociale (e politico) dell’Unione esige un attento controllo della loro destinazione. D’altro canto, la definizione dei settori, inclusi determinati settori industriali, per l’uso dei fondi in questione appare come una sorta di abbozzo di possibile politica industriale. Quale seguito potrà darle la Commissione attraverso adeguate proposte? Come si orienterà questa politica industriale?
La Commissione si avvia quindi sempre di più ad essere un vero «esecutivo» europeo, in collegamento stretto certo col Consiglio europeo e non su questioni di sia pure importantissimo «dettaglio», ma su strategie politiche di grandi dimensioni interne e internazionali.
Anche qui si pongono delle domande non irrilevanti.
La prima riguarda la capacità della Commissione di trattare adeguatamente tutte queste responsabilità. Se la Commissione si è mostrata assai efficace sulle questioni nei settori nei quali ci vuole un certo tempo per fare delle riforme (ambiente, energia, sicurezza) e dunque per ottenere il consenso degli Stati e del Parlamento, in situazione di crisi la sua efficacia si è rivelata minore. Questo problema dev’essere certamente affrontato dalla Commissione stessa – meglio che con i contratti per i vaccini – che deve procedere a riforme interne. Ma il nodo principale è quello di un meccanismo rapido di collegamento con gli Stati ed il Consiglio europeo per evitare ritardi e incertezze nocivi. L’importanza di risolvere questo problema è data dal fatto che nel nostro mondo attuale le crisi, come si è detto, sono diventate molto frequenti, rapide e bisognose di risposte tempestive ed efficaci. E, in genere, non possono essere gestite dai singoli Stati. Probabilmente una tecnica potrebbe essere quella di sistematizzare la previsione anticipata delle crisi e preparare una reazione europea. Bisognerebbe, cioè effettuare un’analisi dei rischi e delle opportunità più ampia, non limitandola alla sola valutazione delle possibilità di successo delle iniziative che si stanno prendendo nei vari campi. A questo fine bisogna anche che gli Stati e il Consiglio europeo trovino un modo di reagire anche ai pericoli futuri e non solo all’attualità, dando seguito alle valutazioni delle possibili crisi future. Infatti, la previsione dei rischi permette di svolgere un’azione volta a impedire i danni, ma anche a trarne i possibili benefici.
In secondo luogo, vi è la questione della legittimità della Commissione. Rispetto alle origini, la legittimità democratica della Commissione ha fatto dei progressi assai consistenti: il suo Presidente è «eletto» dal Parlamento europeo, anche se proposto dal Consiglio europeo, e l’inizio del mandato della stessa Commissione è soggetto ad un’approvazione formale da parte dello stesso Parlamento. Finora, il dibattito sul programma della Commissione, invece aveva fatto crudelmente difetto. O, meglio, non aveva avuto una grande rilevanza politica, poiché il Trattato non dava mandato al Parlamento di approvarlo; tant’è che in qualche momento non si era riusciti ad avere una risoluzione di approvazione o di critica del programma stesso oppure quest’ultima era stata approvata con diverse astensioni. Spesso il programma legislativo della Commissione, cioè la lista delle proposte che la Commissione intendeva presentare nel quinquennio e annualmente, prevaleva sul programma politico. In effetti, tuttavia, la Commissione ha sempre presentato, almeno dopo il Trattato di Maastricht, un suo programma, ma l’approvazione della Commissione non era condizionata dall’approvazione del programma stesso, in genere presentato dopo l’entrata in funzione della stessa Commissione. L’attuale Commissione ha dato un rilievo maggiore alla presentazione del suo programma, molto più chiaramente politico e basato su grandi priorità strategiche. Sarà necessario rafforzare il legame di fiducia fra Commissione e Parlamento, basato su un programma politico? Quali conseguenze vi potrebbero essere su una Commissione nella quale sono presenti esponenti di forze politiche che hanno approvato il programma e di altre che lo hanno respinto? Basterà il ruolo d’indirizzo politico del Presidente della Commissione, previsto dal Trattato per risolvere ogni contraddizione?
La Banca Centrale Europea
Vi è ancora un’altra istituzione che sarà probabilmente interessata dal cambiamento della situazione: la Banca Centrale Europea. A Trattato costante, il suo ruolo resta quello di svolgere una politica monetaria, della quale la stabiliutà dell’EURO e la lotta all’inflazione sopra il 2% sono i cardini. Tale politica deve svolgersi in una posizione d’indipendenza della Banca Centrale rispetto agli Stati ed alle Istituzioni: la BCE non può chiedere o accettare istruzioni da parte di essi. Nondimeno, specie con la presidenza Draghi e quella attuale di Lagarde, la Banca non è mai rifuggita da un’attento rapporto con le decisioni politiche europee e con le situazioni reali di volta in volta verificatesi. Da un lato, la stessa decisione del Consiglio europeo d’inserire la Banca nella famigerata Troika, ha coinvolto direttamente quest’istituzione, forse al di là delle sue ordinarie competenze, nella politica di risposta alla crisi finanziaria. La Banca ha accettato questo ruolo indicato dal Consiglio europeo, facendo così già una prima scelta direttamente politica. D’altro canto, successivamente, fondandosi formalmente sul Trattato, la BCE di Draghi ha inventato il «bazooka» indispensabile per frenare la crisi finanziaria.
Questa scelta è nettamente diversa dalla scelta di austerità dei governi, poiché riduce l’impatto del debito pubblico degli Stati acquistando, sia pure sul mercato secondario, grandi quantità di titoli pubblici. Questa scelta ha in realtà scatenato l’ira degli «austeri» in diversi Paesi membri. Ma la Banca ha potuto tenere duro, grazie anche al sostegno della Corte di giustizia ed alla sua posizione d’indipendenza. Il problema che si pone ora, tuttavia, è di come usare quest’indipendenza, tenendo conto delle grandi iniziative europee in diversi grandi settori, per esempio in quello ambientale. Questa possibilità è espressamente presa in considerazione nel periodico (ma l’ultima revisione parziale della strategia è del 2003) riesame della strategia della Banca, iniziata nel gennaio 2020 e tutt’ora in corso di discussione. Non sappiamo ancora quale metodo potrà essere usato dalla Banca per rispondere a questa prospettiva. Pare però evidente che la Banca, pur nella sua indipendenza, cerca un suo ruolo propriamente nel quadro della politica europea e delle sue nuove prospettive. Questo, ovviamente, dato il ruolo della Banca stessa, obbligherà la Banca a interessarsi del debito pubblico europeo a venire.
Anche qui la reazione europea alla pandemia richiederà una relativa trasformazione del ruolo della Banca. Potrà avvenire solo sulla base delle considerazioni svolte dalla Banca nel corso della revisione periodica citata? O servirà un intervento di aggiornamento dei Trattati? Restano, queste ultime, domande aperte che solo il tempo chiarirà.
Qualche conclusione
Alla luce della panoramica sulle istituzioni europee e la loro possibile evoluzione dopo la crisi pandemica, vorrei ora trarre qualche conclusione.
In primo luogo, mi pare che il sistema istituzionale europeo sia chiaramente in movimento, almeno sotto due profili: da un lato, infatti, v’è bisogno di una reazione rapida alle crisi d’ogni tipo, e quindi il fattore tempo è sempre più fondamentale nel sistema europeo e nella sua reattività alle sfide che si presenteranno nel futuro. D’altro lato, senza strategie preventive e preventivamente accolte dagli Stati, si rischia di trovarsi di fronte ad una crisi senza la coerenza necessaria, con divergenze fra gli Stati e/o fra alcuni di essi e le Istituzioni che, per definizione, allungano i tempi di decisione ed escludono una risposta tempestiva alle crisi. Questo è importante anche perché, come si è detto, il sistema internazionale è sempre più soggetto a crisi di ogni genere.
La pandemia ha confermato questa problematica. Infatti, la reazione dell’Unione in materia di approvvigionamento dei vaccini non ha avuto la necessaria efficacia, mentre l’intervento per sostenere le economie e le società europee colpite da tale crisi si è rivelato importante. E tutto questo ha dato luogo ad un ulteriore conflitto a carattere internazionale circa l’uso dei vaccini prodotti in Occidente, da un lato, e in Russia e in Cina dall’altro, rispetto al quale non vi è una posizione francamente comune degli Stati membri.
In secondo luogo, abbiamo visto che le istituzioni hanno sviluppato dei cambiamenti proprio in seguito alle crisi, in particolare quella pandamica. È probabile che non ci si possa fermare ai cambiamenti pragmatici introdotti, anche perché alcune scelte, prima fra tutte quella del debito comune europeo, non possono restare senza conseguenze di tipo istituzionale. D’altronde, già altre questioni segnalavano la necessità di alcune riforme istituzionali, come si è visto. Ancora una volta, la costruzione europea si trova, come negli anni Settanta, ad una rincorsa fra esercizio di responsabilità e competenze e adeguamento delle strutture istituzionali. La conferenza cittadina sul futuro dell’Europa darà certamente qualche risposta, ma non possiamo aspettarci da essa la soluzione dei problemi, anche perché i governi degli Stati membri hanno escluso di poter effettuare una riforma dei Trattati ai sensi dell’art. 48 TUE.
Una terza questione riguarda, proprio in piena crisi pandemica, lo scollamento di alcuni Stati rispetto ai fondamenti ideali dell’Unione: democrazia, uguaglianza, non discriminazione, con anche una spinta ad una politica internazionale e di alleanze sostanzialmente diversa (si veda l’Ungheria e, forse, la Bulgaria). Anche questa realtà, salvo a voler replicare episodi tipo Brexit, necessita di essere presa in conto per quel che concerne le strutture e le procedure istituzionali.
Insomma, le questioni sul tavolo sono tante e complesse. E come al solito, questioni politiche e responsabilità istituzionali non possono essere separate. La loro soluzione coerente è oggi fondamentale per il futuro dell’Unione. La citata espressione della Merkel sulla «sovranità europea» non può più essere ignorata e si rappresenta, a mio parere, proprio come coerenza fra responsabilità e capacità delle Istituzioni e degli Stati di reagire in modo unitario ed efficace, sia in termini di contenuto che in termini di tempo.
Bibliografia
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