L’intera storia umana, nella misura in cui è la manifestazione del pensiero, è stata forse soltanto l’effetto di una specie di crisi, di una spinta aberrante, paragonabile a una di quelle brusche variazioni che si possono osservare in natura e che scompaiono altrettanto stranamente di come sono nate? Vi sono state specie instabili, e certe mostruosità quanto a dimensione, potenza, complicazione, le quali non sono durate. Chi può dire se tutta la nostra cultura non è in realtà un’ipertrofia, una deviazione, un insostenibile sviluppo, che un centinaio o due di secoli sono riusciti a produrre ed esaurire?” Questa è senza dubbio una teoria piuttosto esagerata, che esprimo qui unicamente per farvi provare, in maniera forse un po’ grossolana, tutta la preoccupazione che possiamo avere riguardo al destino dell’intelletto. Ma è troppo facile cercare di giustificare i propri timori.
(Valéry, 1994)
La grande accelerazione
Vorrei subito esprimere l’idea attorno alla quale ruotano questo articolo e le riflessioni degli autori che interpello: le trasformazioni climatiche accelerate imprimono pressioni importanti sul nostro modo di fare esperienza dei tempi storici e di agire in essi.
Prima di sviluppare questa idea, vanno fatte alcune premesse relative al rapporto tra cambiamenti climatici e l’idea di crisi. Tali trasformazioni, infatti, sono incubatrici di crisi molteplici: crisi planetaria in senso lato, se si considera che le previsioni più negative riconoscono in questi processi un’alterazione delle condizioni base per la sussistenza della vita sulla terra; crisi dell’ideologia dello sviluppo, poiché tradiscono le promesse velleitarie del progresso come sviluppo e consumo illimitato per tutti; crisi del sistema nazionale, poiché la grande accelerazione rivela la fragilità del quadro organizzativo e del principio responsivo degli stati nazionali, incapaci, se divisi, di rispondere efficacemente alle trasformazioni ecologiche e alle altre sfide del mondo globalizzato (Spoltore, 1992).
Il mutamento climatico infrange il sogno prometeico di dominio della natura di una particolare costellazione culturale, la modernità occidentale[1]. Quindi, secondo diversi autori, inibisce la persuasività e la capacità orientativa di metanarrazioni e cosmologie dicotomiche (Descola, 2005; de Castro, 2019; Latour, 2020). Gli umani riscoprono l’impatto geologico della loro operosità e ritrovano nella “natura” soggettività e forze agentive imprevedibili, caotiche. In questo senso, il popolo dei moderni assiste alla messa in discussione definitiva della sua ontologia, il naturalismo (Descola, 2005) che, attraverso una rigida dicotomia tra natura e cultura, ipostatizza la differenza tra umani e non umani attribuendo ai primi soggettività, agentività, intenzionalità, riflessività e ai secondi oggettività, disponibilità e inesauribilità. Seguendo questa impostazione, tale dicotomia va inequivocabilmente ripensata di fronte all’irruzione definitiva di una «trascendenza che pensavamo di aver trasceso e che ora ritorna più forte che mai» (Danowski e de Castro, 2017). Beninteso, si tratta, in questo senso, di una crisi assolutamente “nostra”. A dimostrazione di ciò, l’archivio etnografico dell’antropologia ha registrato molti casi di gruppi socioculturali abili a valorizzare le interdipendenze tra umani e non-umani e ad attribuire ai secondi soggettività e intenzionalità, rendendo intima e familiare la relazione con l’ambiente, con l’atmosfera e con la sua imprevedibilità (Van Aken, 2020; de Castro, 2019). In sintesi, stiamo riscoprendo l’inadeguatezza delle nostre categorie di pensiero, incapaci di cogliere e interpretare i fenomeni in atto. Ovvero, tra struttura (mondo, realtà, fenomeni) e semantica (linguaggio, concetti) si è manifestato uno scollamento che solo il tempo, forse, potrà ridurre (Koselleck, 2009).