L’intento di questo saggio è quello di studiare le pratiche di assemblaggio e costruzione relative agli algoritmi, analizzandone i discorsi, le funzioni e la produzione di esperienze di significato, ovvero i modi in cui “attribuiscono significato al mondo”. Se interpretassimo la materialità e la mediazione come sempre in connessione, e vedessimo il nostro posto nel mondo come non teleologicamente garantito, ma piuttosto immerso tra diversi organismi e macchine “animate”, allora potremmo avviare un nuovo approccio di indagine della nostra contemporaneità, in grado di metterci in condizione di poter studiare i medianti. Un solo approccio costruzionista non pare in grado di soddisfare le esigenze richieste da uno studio del mondo sociale; la fenomenologia, in questo caso, risulterebbe essenziale proprio nella misura in cui non ignorerebbe il realismo. L’appello al realismo è volto ad affermare che gli oggetti, colti nella loro veste antepredicativa, costituiscono sistemi di possibilità rispetto ai loro usi e rappresentazioni.
In particolare, si cercherà di fornire uno scenario su quello che risulta essere un essenziale “concetto-oggetto” delle nuove tecnologie: l’algoritmo. Quello che si intende fare è ruotare l’oggetto di studio “algoritmo”, renderlo un testimone ontologico del nostro presente analizzandone alcuni aspetti, che nel loro insieme costituirebbero un’ontologia ibrida. Ciò sembra essere necessario nella misura in cui abbiamo a che fare con una realtà complessa, nella quale i sistemi tecnologici sono intricati e disordinati. Attribuire priorità solamente al naturale, a ciò che si presuppone, erroneamente, essere incontaminato, risulterebbe allora, nell’attuale condizione in cui ci troviamo, essere limitante; che dire, infatti, di tutte le altre forme di esistenza sintetiche e artificiali?
Studiare l’algoritmo come qualcosa di situato fra persone, cose, processi e documenti, esplorarne le associazioni, tenendo presente che il loro assemblaggio si svolge in modo contingente e contestuale, andrebbe incontro a questa esigenza. Perché allora, invece che pensare all’algoritmo come singolo oggetto da analizzare, non vederlo come sistema complesso, instabile, come iperoggetto? Questo sarebbe il prodotto stesso, incredibilmente longevo, della produzione umana e verrebbe considerato essere iper in relazione a qualche altra entità: nel nostro caso in relazione proprio agli esseri umani e all’ambiente circostante.
Ciò a cui si presta attenzione qui, infatti, non è l’algoritmo strettamente definito; non è esso ad avere effetti socioculturali, quanto piuttosto il sistema algoritmico, capace di “intrecciare” persone e codice. Piuttosto che criticare la tecnologia prospettando scenari apocalittici, potremmo invece porre la domanda: come essa definisce e produce distinzioni e relazioni con la cultura? In questo senso, gli algoritmi potrebbero influenzare la cultura e viceversa, proprio perché sarebbero due cose distinte, ma interrelate. Stando a ciò, gli algoritmi non sarebbero singoli oggetti tecnici che subentrerebbero in diverse interazioni culturali, ma oggetti culturalmente attivati da pratiche che le persone adotterebbero per relazionarsi a loro. Non solo c’è la possibilità che gli algoritmi diano forma alla cultura, ma il loro stesso sviluppo interno è chiaramente qualcosa di culturale. Se la computer science si occupa dell’efficienza e di come l’algoritmo interagisce con la struttura dati, la filosofia potrebbe interessarsi allora a come l’algoritmo possa materializzare valore e proiettare significati culturali. Si tratterebbe di vedere questi non solo come artefatti computazionali, ma anche come sensiting devices che potrebbero indirizzarci verso un ripensamento dell’agency, della trasparenza e della normatività. L’intento è quello di assumere la consapevolezza che le entità non-umane saranno protagoniste della prossima fase del pensiero umano.