Tratto da Le nuove frontiere del possibile, Rizzoli, 1965 (Profiles of the Future, 1962)
Prima di cimentarsi nella pericolosa carriera del profeta è istruttivo vedere quale successo ne hanno ottenuto gli altri; e anche più istruttivo è vedere dove hanno fallito. Con monotona regolarità uomini di manifesta competenza hanno stabilito leggi su ciò che è tecnicamente possibile o impossibile. E sono stati clamorosamente smentiti: talvolta quando ancora non si era asciugato l’inchiostro delle loro penne. Risulta, a un’analisi accurata, che queste débâcles rientrano in due categorie, che chiamerò “cedimento del coraggio” e “cedimento della fantasia”.
Il cedimento del coraggio sembra essere il più comune. Lo si riscontra quando, pur con tutti i dati pertinenti a disposizione, l’aspirante profeta non sa vedere come questi convergano a un’unica conclusione inevitabile. Alcuni di questi cedimenti sono tanto ridicoli da essere quasi incredibili: potrebbero costituire materia interessante per un’analisi psicologica. “Dicevano che non era possibile” è una frase che ricorre in tutta la storia dell’invenzione. Ignoro se qualcuno abbia mai esaminato le ragioni per cui “si diceva” questo, spesso con una veemenza del tutto inutile. Oggi è impossibile far rivivere la mentalità del tempo in cui si costruivano le prime locomotive e c’era chi seriamente prospettava l’asfissia per chiunque raggiungesse la spaventosa velocità di cinquanta chilometri all’ora. Allo stesso modo è difficile credere che, solo ottant’anni fa, l’idea della luce elettrica nelle case era messa in ridicolo da tutti gli “esperti”, eccettuato un inventore americano trentunenne di nome Thomas Alva Edison. Quando, nel 1878, le azioni del gas precipitarono per il fatto che Edison (ormai personaggio autorevole, con il fonografo e il microfono a carbone al proprio attivo) annunciò che stava lavorando alla lampada a incandescenza, il parlamento britannico istituì una commissione che indagasse sulla faccenda (Westminster è capace di battere Washington con estrema facilità in questo tipo di gara). Con grande sollievo delle compagnie del gas, gli eminenti investigatori riferirono che le idee di Edison “potevano soddisfare i nostri amici d’oltreoceano… ma non meritavano l’attenzione di uomini di scienza o di buon senso”. E Sir William Preece, ingegnere campo del British Post Office, dichiarò chiaro e tondo che “la distribuzione della luce elettrica è un vero e proprio ignis fatuus”. Ma a nessuno certo sfugge che la fatuità non stava proprio nell’ignis (…).
Ma gli esempi più famosi e forse più istruttivi di un simile cedimento si sono riscontrati nel campo dell’aeronautica e dell’astronautica. All’inizio del ventesimo secolo gli scienziati erano tutti concordi nel dichiarare che il volo di un mezzo più pesante dell’aria era impossibile e che era pazzo chi cercava di costruire aeroplani. Il grande astronomo americano Simon Newcomb scrisse un famoso saggio che concludeva: “La dimostrazione che le combinazioni possibili di sostanze e congegni e forze conosciute non sono capaci di concorrere alla costruzione d’una macchina con cui l’uomo possa volare per lunghi tratti, sembra all’autore tanto completa quanto la può essere la dimostrazione di un fatto fisico”. Stranamente, Newcomb era di vedute abbastanza larghe per ammettere che qualche scoperta del tutto nuova – per esempio la neutralizzazione della gravità – poteva rendere effettuabile il volo. Non è lecito quindi accusarlo di mancanza di fantasia. Il suo errore consisteva nell’azzardarsi a dare un ordine alle leggi dell’aerodinamica, scienza di cui era incompetente. La sua mancanza di coraggio sta nel non aver compreso che i mezzi per il volo erano già a portata di mano. L’articolo di Newcomb, infatti, ebbe vasta risonanza proprio nel periodo in cui i fratelli Wright, non avendo un congegno adatto contro la gravità nella loro bottega di biciclette, montavano su ali un motore a benzina. Quando la notizia del loro successo arrivò all’astronomo, questi solo per un attimo accusò il colpo. Concesse che le macchine volanti potevano sì essere costruite, ma non sarebbero state certamente di alcuna utilità pratica, giacché era impossibile ch’esse potessero portare il peso di un altro passeggero oltre quello del pilota (…).
Più vicino a noi, l’inizio dell’era spaziale ha scatenato rivendicazioni (e confutazioni) di profezie in un misura e ad una frequenza mai prima costatate. Siccome io pure ho avuto in questo la mia parte e poiché non più del mio prossimo so rinunciare alla soddisfazione di dire: “Ve lo avevo detto”, vorrei ricordare alcune dichiarazioni sul volo spaziale fatte in passato da scienziati eminenti. Bisogna che qualcuno lo faccia, per destare l’alquanto selettiva memoria dei pessimisti. È davvero sbalorditiva la prontezza con cui chi ha detto un tempo: “È impossibile” sa convertire la propria asserzione in un: “L’ho sempre detto che si poteva fare”. Per quanto riguarda il vasto pubblico l’idea del volo spaziale come seria possibilità si profilò per la prima volta negli anni Venti, prevalentemente in conseguenza di rapporti giornalistici sul lavoro dell’americano Robert Goddard e del rumeno Hermann Oberth. (Gli studi molto anteriori del russo Ziolkovskij erano quasi sconosciuti fuori dalla sua terra.) Quando le idee di Goddard e di Oberth, normalmente deformate dalla stampa, penetrarono nel mondo scientifico furono accolte con esclamazioni di scherno. Come saggio del tipo di critica che i pionieri dell’astronautica ebbero a fronteggiare voglio esibire questo capolavoro, tolto dalla monografia pubblicata da un certo professor A.W. Bickerton nel 1926. Lo si legga con molta attenzione perché, come esempio di presuntuosa ignoranza, molto difficilmente potrà essere superato: “Questa idea pazzesca di ‘sparare alla Luna’ costituisce un esempio del grado d’assurdità cui saranno portati dalla loro nociva specializzazione gli scienziati che lavorano in compatimenti stagni. Esaminiamo criticamente la proposta. Perché un proietto possa sottrarsi interamente alla forza di gravità terrestre necessita di una velocità di circa 12 km al secondo. A tale velocità l’energia termica di un grammo è di 15.180 calorie… L’energia del nostro più violento esplosivo, la nitroglicerina, è meno di 1500 calori al grammo. Di conseguenza, anche se l’esplosivo non avesse nulla da trasportare, possiederebbe soltanto un decimo dell’energia necessaria per sottrarsi alla Terra… Quindi la proposta risulta essere fondamentalmente impossibile”. Quando io scopersi questa piccola gemma nella biblioteca pubblica di Colombo [in Sri Lanka, n.d.r.], lettori indignati mi indicarono irosamente il cartello “Silenzio” (…). A commento di quanto ho detto sopra, potrei aggiungere che il professor Bickerton, attivo divulgatore scientifico, annoverava tra le sue pubblicazioni un libro intitolato Perils of a Pioneer. È chiaro che fra tutti i pericoli cui deve andare incontro un pioniere ben pochi sono più scoraggianti dei vari Bickerton.
Per un intero ventennio, dal ’30 al ’50, scienziati insigni continuarono a farsi beffe – ammesso che si degnassero di notarli – dei pionieri di missilistica. Chiunque abbia accesso a una buona biblioteca universitaria può trovare – conservato per i posteri nelle nobili pagine del Philosophical Magazine (numero del gennaio 1941) – un esempio particolarmente interessante, data l’eminenza del suo autore. Si tratta d’un saggio dell’illustre astronomo canadese J.W. Campbell dell’università di Alberta, intitolato Rocket Flight to the Moon. Lo scritto inizia con una citazione da un giornale di Edmonton del 1938, il quale osservava che “il lancio d’un razzo sulla Luna sembra oggi meno remoto di quanto non lo fosse la televisione un secolo fa”; e continua con un esame matematico del problema da parte di un professore. Dopo alcune pagine di analisi, questi giunge alla conclusione che occorrerebbe un milione di tonnellate di propellente per portare soltanto un mezzo chilo di carico utile nel viaggio di andata e di ritorno. La cifra giusta, per le tecniche e i carburanti primitivi di oggi, è grosso modo una tonnellata per 500 g. Proporzione deprimente, ma mai così brutta come quella calcolata dal professore. Eppure, la sua matematica era ineccepibile. Che cosa c’era dunque che non andava? Semplicemente il suo assunto iniziale, del tutto fuori dalla realtà. La via ch’egli aveva scelto per il razzo era smodatamente dispendiosa in energia, e l’accelerazione ch’egli pensava di usare era tanto debole che la maggior parte del carburante avrebbe dovuto esser consumato a basse altitudini, in contrasto con il campo gravitazione terrestre. Era come se avesse calcolato il rendimento di un’automobile con i freni in azione. Nessuna meraviglia ch’egli concludesse: “Sebbene sia sempre rischioso fare previsioni negative, mi sembra che l’affermare che ‘il lancio di razzi sulla Luna appaia meno remoto di quanto non lo fosse la televisione un secolo fa’ sia eccessivamente ottimistico”. Sono certo che buona parte degli abbonati del Philosophical Magazine quando lessero queste parole, nel 1941, pensarono: “Bene, questo dovrebbe mettere a posto quei pazzi dei missilisti!” (…).
La lezione che si deve apprendere da tali esempi è una lezione che non sarà mai troppo spesso ripetuta; una lezione che ben di rado capiscono i profani, i quali hanno un riverenziale e quasi superstizioso timore della matematica. Ma la matematica è soltanto uno strumento, sia pure immensamente potente. Nessuna equazione, per quanto impressionante e complessa, può giungere alla verità se i presupposti non sono giusti. È davvero sorprendente il costatare con quale margine ingegneri e scienziati competenti ma tradizionalisti possono sbagliare il bersaglio, quando partono con l’idea preconcetta che ciò che stanno investigando è impossibile. Allorché questo accade, la maggior parte degli uomini più illuminati si lascia accecare dai pregiudizi ed è incapace di vedere ciò che sta proprio davanti al suo naso. Cosa più incredibile ancora, rifiuta di trarre insegnamento dall’esperienza e seguita a fare più e più volte lo stesso sbaglio (…).
Quando a un mondo stupefatto fu rivelata l’esistenza della V2, della gittata di 320 km, i missili intercontinentali furono oggetto d’un considerevole interesse. Ma questo venne decisamente stroncato dal dottor Vannevar Bush, capo della ricerca scientifica statunitense durante la guerra, il quale portò questa prova irrefutabile davanti alla commissione del Senato. Ascoltate: “Si è molto parlato di un razzo con un’ampiezza d’angolo di 5000 km. Io sono del parere che una cosa simile non sarà possibile per molti anni ancora. La gente che ha scritto su questo argomento, per me irritante, ha parlato di un razzo con un’ampiezza d’angolo di 5000 km lanciato da un continente all’altro, recante una bomba atomica e diretto in modo da costituire un’arma precisa capace di atterrare esattamente su un certo obiettivo, per esempio una città. Io affermo, in sede tecnica, che non credo ci sia nessuno al mondo che sappia fare una cosa simile e sono convinto che essa non sarà fatta prima di un lunghissimo periodo di tempo… Penso che possiamo eliminarla dai nostri pensieri e mi auguro che il pubblico americano faccia lo stesso” (…).
Risultanza di tutto questo fu il più grande cedimento di coraggio di tutta la storia; il quale mutò il futuro del mondo, anzi di molti mondi. Di fronte agli stessi fatti e agli stessi calcoli, i tecnici americani e russi presero due strade ben distinte. Il Pentagono, tenuto a render conto ai contribuenti, praticamente abbandonò per quasi un lustro i razzi a lunga portata, fino a che lo sviluppo delle bombe termonucleari non permise di costruire testate esplosive cinque volte più leggere, ma cinquanta volte più potenti, del ridicolo petardo lasciato cadere su Hiroshima. I russi non ebbero inibizioni del genere. Trovatisi di fronte alla necessità di un razzo di 200 tonnellate, andarono avanti e lo costruirono. Quando esso fu finito, non era più richiesto per scopi militari: i fisici sovietici avevano superato il cul-de-sac americano della bomba al tritio del costo di miliardi di dollari ed erano arrivati alla molto più economica bomba al litio. Dopo aver puntato, in missilistica, sul cavallo sbagliato, i russi lo fecero partecipare a una gara molto più importante, e vinsero la corsa nello spazio. Delle molte lezioni che si devono trarre da questo brano di storia recente, la sola che io desideri mettere in rilievo è questa: qualunque cosa teoricamente possibile sarà in pratica realizzata, non importa quali siano le difficoltà tecniche, se la si vuole abbastanza fortemente. Non significa nulla dire contro qualche progetto: “È un’idea pazzesca”. La maggior parte delle cose che sono successe negli ultimi cinquant’anni sono state pazzesche, ed è soltanto col supporre ch’esse continueranno ad esser tali che noi abbiamo qualche speranza di prevedere il futuro. Per far questo – per evitare quel cedimento del coraggio per cui la storia esige una penalità tanto spietata – dobbiamo avere l’animo di seguire tutte le estrapolazioni tecniche fino alla loro conclusione logica. E anche questo non basta, come ora dimostrerà. Per predire il futuro c’è bisogno di logica, ma c’è anche bisogno di fede e di fantasia, qualità che talvolta possono mettere a dura prova la logica stessa (…).
Il secondo tipo di insuccesso profetico è meno biasimevole e più interessante. Esso si determina quando tutti i fatti a disposizione vengono valutati e ordinati correttamente, ma sono ancora da scoprire i fatti realmente vitali e non è ammessa la possibilità della loro esistenza. Un esempio famoso in proposito ci è fornito dal filosofo August Comte il quale, nel suo Cours de Philosophie Positive (1835), tentò di definire i confini entro cui la conoscenza scientifica deve risiedere. Nel suo capitolo sull’astronomia (Libro II, cap. I) egli scrisse le seguenti parole concernenti i corpi celesti: “Noi sappiamo come determinare la loro forma, la loro distanza, il loro volume, il loro moto, ma non possiamo conoscere nulla della loro struttura chimica e minerale; e tanto meno quella degli organismi viventi sulla loro superficie… Dobbiamo tenere accuratamente distinte l’idea del sistema solare e quella dell’universo, ed esser certi che il nostro vero interesse risiede nel primo. Solo entro questa linea di confine l’astronomia è la scienza suprema e positiva quale abbiamo voluto che sia… le stelle ci servono scientificamente come provvidi siti cui è possibile riferire gli interni moti del nostro sistema”. Comte stabiliva, in altre parole, che le stelle non sarebbero mai state se non punti celesti di riferimento, di nessun interesse intrinseco per l’astronomo. Unicamente nel caso dei pianeti si poteva sperare in qualche cognizione precisa, limitata però anch’essa alla geometria e alla dinamica. Con ogni probabilità Comte avrebbe dichiarato che una scienza quale l’astrofisica era a priori impossibile. Eppure, a cinquant’anni dalla sua morte, quasi tutta l’astronomia era astrofisica, e pochissimi erano gli astronomi di professione che si interessavano particolarmente ai pianeti. L’asserzione di Comte era stata del tutto confutata dall’invenzione dello spettroscopio, il quale non solo ci ha rivelato la struttura chimica dei corpi celesti ma ci ha detto molto di più sulle stelle lontane di quanto non conosciamo dei nostri dintorni planetari.
Non possiamo fare una colpa a Comte di non aver immaginato lo spettroscopio. Nessuno avrebbe potuto immaginare questo, né gli ancor più complicati strumenti che a lui si sono aggiunti nell’arsenale dell’astronomo. Ma Comte ci offre un avvertimento che dovremmo sempre tenere a mente: anche le cose senza dubbio impossibili con le tecniche esistenti o presumibili, possono rivelarsi facili in conseguenza di nuove scoperte scientifiche. Per la loro stessa natura tali scoperte non sono mai prevedibili, ma esse ci hanno consentito di superare tanti ostacoli insormontabili nel passato che nessuna rappresentazione del futuro può sperare di essere valida se la ignora.
Un altro famoso cedimento della fantasia fu quello in cui si ostinò lord Rutherford, l’uomo che più di chiunque altro mise a nudo l’interna struttura dell’atomo. Rutherford si fece beffe più volte di quei “grossisti in sensazioni” i quali predicevano che un giorno saremmo stati capaci di imbrigliare l’energia racchiusa nella materia. Eppure, solo cinque anni dopo la sua morte, nel 1937, fu iniziata a Chicago la prima reazione a catena. Quello che Rutherford, con tutto il suo meraviglioso acume, aveva mancato di prendere in considerazione era il fatto che potesse esser scoperta una reazione nucleare capace di liberare maggior energia di quella richiesta per iniziarla. Un “fuoco” nucleare analogo alla combustione chimica era ciò che occorreva per liberare l’energia della materia. Provvide a questo la fissione dell’uranio e, una volta fatta la scoperta, l’imbrigliamento dell’energia atomica fu inevitabile. Certo che, se non ci fosse stata la pressione della guerra, ci sarebbe voluto quasi un secolo per attuarla. L’esempio di Lord Rutherford dimostra che non è l’uomo più versato in una materia e mastro riconosciuto nel suo campo quello che può dare le più valide indicazioni per il futuro di esso. Un fardello troppo grande di conoscenza può intralciare le ruote della fantasia. Ho cercato di dar corpo a questa costatazione nella legge di Clarke, che può essere formulata nel modo seguente: “Quando un illustre ma anziano scienziato stabilisce che qualcosa è possibile ha quasi certamente ragione. Quando stabilisce che qualcosa è impossibile molto probabilmente ha torto” (…).
La troppa fantasia è molto più rara di quella troppo scarsa e, quando c’è, coinvolge di solito il suo sventurato possessore in fallimenti e delusioni. A meno che egli non sia abbastanza accorto da limitarsi a scrivere su tali idee, senza tentare di realizzarle. In questa categoria troviamo tutti gli autori di fantascienza, gli storici del futuro, i creatori di utopie, e i due Bacon: Roger e Francis. Frate Roger (1214-1292) immaginò strumenti ottici, battelli azionati meccanicamente e macchine volanti: congegni molto al di sopra della esistenza o anche prevedibile tecnica del suo tempo. È difficile credere che le seguenti parole siano state scritte nel secolo XIII: “Si possono fare strumenti per mezzo dei quali le più grosse navi, con un solo uomo che le guidi, saranno trasportate a velocità maggiore che se fossero piene di marinai. Si possono costruire carrozze che si muoveranno con incredibile rapidità, senza l’aiuto di animali. Si possono fabbricare apparecchi di volo in cui un uomo, seduto a proprio agio e immerso nei propri pensieri, potrà battere l’aria, con le sue ali artificiali, alla maniera degli uccelli… e altresì macchine che permetteranno agli uomini di passeggiare sul fondo dei mari”. Questo brano è un trionfo della fantasia sulla dura realtà. Ogni cosa che esso contempla è diventata vera. Eppure, al tempo in cui fu scritto, era più un atto di fede che di logica. È probabile che ogni predizione a lunga gittata, se ha da essere esatta, dev’essere di questa natura. Il vero futuro non è logicamente prevedibile (…).
Ci si può preparare all’imprevedibile solo cercando di conservare una mentalità aperta e senza pregiudizi. Il che costituisce un’impresa estremamente difficile anche per chi ci mette la miglior volontà del mondo. Una mentalità del tutto aperta sarebbe infatti una mentalità vuota; e la libertà da ogni pregiudizio e preconcetto è un ideale irraggiungibile. Eppure esiste un tipo di esercizio mentale che può costituisce un addestramento essenziale per gli aspiranti profeti: chiunque desideri competere con il futuro dovrebbe con la fantasia riportarsi indietro di due generazioni – diciamo al 1900 – e chiedersi quante tecniche di oggi sarebbero non soltanto incredibili ma incomprensibili per i più acuti cervelli di quell’epoca. Il 1900 è una bella data tonda da scegliersi, perché fu proprio in quegli anni che l’inferno cominciò a scatenarsi nella scienza. Ha detto infatti J.B. Conant: “In qualche luogo, intorno al 1900, la scienza prese una svolta totalmente inaspettata. Vi erano state in precedenza alcune teorie rivoluzionarie e più di una scoperta che aveva fatto epoca nella storia della scienza; ma ciò che successe tra il 1900 e, diciamo, il 1930 fu qualcosa di diverso: fu la smentita alla generale previsione su quanto ci si poteva fiduciosamente aspettare dalla sperimentazione”. La stessa cosa ha espresso P.W. Bridgman, con anche maggior forza: “Il fisico è passato attraverso una crisi intellettuale cui l’ha indotto la scoperta, per via sperimentale, di fatti tali ch’egli non aveva prima contemplati e che mai avrebbe creduto possibili” (…).
[S]i possono quindi dividere in due classi nettamente definite le invenzioni e i congegni tecnici del nostro mondo moderno. Da un lato, quelle macchine il cui funzionamento sarebbe stato perfettamente capito da qualsiasi grande pensatore del passato; dall’altro quelle che avrebbero disorientato appieno le menti più acute dell’antichità. E non soltanto dell’antichità: esistono congegni oggi in uso che avrebbero fatto diventar matti Edison e Marconi, qualora essi avessero cercato di studiare a fondo il loro funzionamento. Mi sia permesso dare qualche esempio per mettere in evidenza questo punto. Se mostraste un moderno motore Diesel, una turbina a vapore, un elicottero a Franklin, Galileo, Leonardo e Archimede – elenco che abbraccia duemila anni di tempo – nessuno di questi uomini avrebbe la minima difficoltà a capire come tali macchine funzionano. Leonardo, anzi, ne riconoscerebbe parecchie dai suoi appunti. Tutti e quattro sarebbero sbalorditi del materiale e della fattura, che nella sua precisione apparirebbe magica ai loro occhi, ma una volta superato lo stupore, si sentirebbero del tutto a casa propria – almeno fino a che non indagassero troppo a fondo nei comandi ausiliari e nelle apparecchiature elettriche. Ma supponiamo ora ch’essi fossero messi a confronto con un apparecchio televisivo, una calcolatrice elettronica, un reattore nucleare, una installazione radar. A parte la complessità di tali macchine, i singoli elementi di cui esse sono composte risulterebbero del tutto incomprensibili a qualsiasi uomo nato prima di questo secolo. Qualunque fosse il suo grado d’istruzione e di intelligenza, egli non possiederebbe la struttura mentale capace di comprendere raggi elettronici, transistor, fissione atomica, onde-guida e tubi a raggi catodici.
La difficoltà, ripeto, non risiede nella complessità: alcuni dei più semplici apparecchi moderni sarebbero i più difficili da spiegare. Un esempio particolarmente valido è dato dalla bomba atomica (per lo meno nei suoi primi modelli). Che cosa ci può essere di più semplice che percuotere insieme due pezzi di metallo? Eppure, come si potrebbe spiegare ad Archimede che ne deriverebbe una devastazione maggiore di quella prodotta da tutte le guerra fra Greci e Persiani? Supponiamo che incontraste uno scienziato della fine dell’Ottocento e gli diceste: “Ecco due pezzi di una sostanza chiamata Uranio 235. Se li teniamo separati non succede niente, ma se li uniamo di colpo libereremo tanta energia quanta ne potremmo ottenere bruciando 10.000 tonnellate di carbone”. Per quanto lungimirante e fantasioso possa essere il vostro scienziato “pre-ventesimo secolo”, direbbe: “Che assurdità colossale! Questa è magia, non scienza. Cose simili non possono accadere nella realtà” (…). Il lato interessante di questo esempio particolare è che, anche quando l’esistenza dell’energia atomica fu pienamente accettata – diciamo nel 1940 – quasi tutti gli scienziati avrebbero ancora riso all’idea di sprigionarla battendo insieme due pezzi di metallo. Coloro che credettero possibile liberare un giorno l’energia del nucleo, quasi certamente immaginarono complicati congegni elettrici – “frantumatori dell’atomo” e simili – che facessero il lavoro. (Può darsi che questo avvenga se, come sembra, avremo bisogno di macchine simili per fondere i nuclei dell’idrogeno su scala industriale. Ma, ancora una volta, chi sa?) La scoperta del tutto inaspettata della fissione dell’uranio, nel 1938, rese possibili congegni assurdamente semplici (in teoria, se non in pratica), quali la bomba atomica e il reattore a catena nucleare. Nessuno scienziato avrebbe mai potuto prevederli; anzi, se qualcuno l’avesse fatto, tutti i colleghi avrebbero riso di lui.
È altamente istruttivo, e stimolante per la fantasia, fare un elenco delle invenzioni e scoperte che sono state previste – e di quelle che non lo furono. Io ho cercato di farlo. Eccolo.
Inattese | Attese |
Raggi X | Automobili |
Energia nucleare | Macchine volanti |
Radio, TV | Motori a vapore |
Elettronica | Sottomarini |
Fotografia | Navi spaziali |
Registrazione del suono | Telefoni |
Meccanica dei Quanta | Robot |
Relatività | Trasmutazione |
Transistor | Vita artificiale |
Maser; Laser | Immortalità |
Superconduttori; superfluidi | Invisibilità |
Orologi atomici; effetto di Mössbauer | Teletrasporti |
Determinazione della composizione dei corpi celesti | Comunicazione i morti |
Datazione del passato (carbonio 14, eccetera) | Osservazione del passato |
Scoperta dei pianeti invisibili | Osservazione del futuro |
La ionosfera; fasce di Van Allen | Telepatia |
Tutte le voci a sinistra si riferiscono a cose già pienamente realizzate o scoperte; tutte quante hanno intorno a sé un tanto di inatteso o di affatto sorprendente. Per quanto ne so, non una fu prevista molto in anticipo sul momento della rivelazione. A destra, invece, sono elencate idee che circolano da centinaia, migliaia d’anni. Alcune sono state realizzate; altre lo saranno; altre ancora sono forse irrealizzabili. Ma quali? L’elenco di destra è deliberatamente provocatorio; esso include mere fantasie e serie speculazioni scientifiche. Ma il solo modo di scoprire i limiti del possibile è avventurarsi un poco oltre di essi, nell’impossibile.