Nel gennaio 2015 la Oxford Martin School ha lanciato un nuovo programma di ricerca, l’Oxford Martin Programme on Technology and Employement, con l’obiettivo di indagare le implicazioni dello scenario tecnologico in rapido mutamento per l’economia e la società. Lo scorso febbraio, nell’ambito del programma, è stato pubblicato il report Technology at Work, che compie una prima analisi del fenomeno della “disoccupazione tecnologica” e, più in generale, degli effetti di lungo periodo dell’automazione sul mercato del lavoro.
Una prima comparazione che dimostra l’effetto negativo sull’occupazione della rivoluzione digitale è la seguente: secondo una stima riportata nel documento, nel 2014 la capitalizzazione complessiva delle tre maggiori aziende della Silicon Valley è stata di 1,09 trilioni di dollari a fronte di circa 137.000 lavoratori; nel 1990 le tre più grandi aziende di Detroit avevano una capitalizzazione di mercato di 36 miliardi di dollari ma davano a lavoro a 1,2 milioni di lavoratori. L’industria digitale è basata sulla crescita del capitale, non dell’occupazione.
Al tempo stesso, la diffusione dell’automazione in diversi ambiti professionali sta provocando una curiosa polarizzazione dell’occupazione: i posti di lavoro a media qualificazione sono in calo sia negli Stati Uniti che in Europa, sostituiti da programmi informatici in grado di rimpiazzarli facilmente, dal momento che chi lavora in questi settori generalmente svolge lavori routinari che non richiedono troppo impegno manuale ma nemmeno troppo impegno cognitivo: esattamente il tipo di impiego che può essere svolto da una macchina (per esempio, i lavori amministrativi). Resistono invece i lavori a bassa qualificazione, che richiedono un elevato impegno manuale e perciò necessitano ancora del lavoro umano, e quelli ad alta qualificazione, professioni intellettuali che (ancora) non possono essere sostituiti dai computer. Questo trend è destinato ad aumentare con il perfezionamento degli algoritmi grazie alla rivoluzione dei biga data. Un esempio è il miglioramento degli algoritmi di traduzione automatica, che beneficiano delle correzioni continue prodotte dagli utenti al ritmo di milioni al giorno, e dell’analisi grammaticale di documenti dati “in pasto” a software come Google Translate (circa 200 miliardi di parole provenienti da documenti ONU). In un prossimo futuro ciò influirà negativamente sull’occupazione nel settore dei traduttori professionisti.
Un ulteriore passo avanti sarà costituito dall’ingresso sul mercato dei robot autonomi, in grado di agire in modo indipendente dal controllo umano. I primi effetti sono riscontrabili nel settore militare, dove l’automazione (per es. nell’impiego dei droni) sta radicalmente cambiando lo scenario tradizionale. La penetrazione, prevista a partire dalla metà del prossimo decennio, dei veicoli automatici, migliorerà senza dubbio la qualità della vita, riducendo gli incidenti stradali, mettendo a disposizione degli utenti il tempo precedentemente speso nella guida delle autovetture e migliorando le prestazioni dei veicoli. Tuttavia, l’impatto negativo sul numero di persone occupate nel settore – a partire dai tassisti e dagli autisti privati – sarà significativo.
Secondo il rapporto, il 47% della forza lavoro negli Stati Uniti è a rischio a causa dell’incremento dell’automazione prevista dagli attuali trend tecnologici. La percentuale sale al 54% per i posti di lavoro nell’Unione europea. Uno degli effetti prodotti da queste trasformazioni sarà l’aumento del self-employement, dell’autoimpiego. Già oggi una fetta significativa di artigiani e piccoli imprenditori beneficia degli effetti positivi dell’economia digitale, grazie alla possibilità di aprire attività online e raggiungere, a costi quasi azzerati, un mercato di dimensioni globali. Un trend analogo è l’ascesa del mercato delle app, che solo negli USA ha prodotto a oggi circa 750.000 posti di lavoro. Dal 2000 a oggi, il numero delle persone che lavorano in proprio è aumentato del 30%, negli USA la crescita è stata addirittura del 50%. Generalmente, chi lavora in proprio è più soddisfatto della propria vita lavorativa; questa percezione è destinata ad alimentare ulteriormente il fenomeno.
Tra i rischi dell’economia digitale, il rapporto cita principalmente l’aumento della sperequazione dei redditi, causata proprio dal fatto che questo tipo di economia è orientata all’aumento della ricchezza prodotta ma non del numero di lavoratori, né del livello dei salari. La maggior parte della ricchezza prodotta nelle grandi aziende digitali, infatti, è divisa tra gli azionisti, e non tocca gli impiegati. La crescita delle diseguaglianze economiche porta all’aumento delle diseguaglianze politiche, con probabili effetti negativi sulla stabilità sociale nel medio-lungo periodo. È vero anche, osservano gli autori, che la rivoluzione digitale ha comportato significativi benefici per i lavoratori ad alta qualificazione, mentre quelli che hanno subito i danni dell’automazione hanno comunque goduto, in qualità di consumatori, dei benefici della digital economy, tra cui soprattutto il calo del prezzo della maggior parte dei beni e l’aumento del tempo libero.
Tra i suggerimenti finali per migliorare la situazione dell’occupazione nel prossimo futuro, gli autori citano la riduzione del cuneo fiscale (il calo di 9 punti del cuneo fiscale nel Regno Unito può essere considerato una delle concause dell’aumento dell’occupazione negli ultimi anni), garantendo una maggiore consistenza delle buste paghe dei lavoratori, e l’aumento della spesa nel settore delle politiche attive del mercato del lavoro – servizi di impiego, formazione continua – che in alcuni paesi, come la Danimarca, raggiunge il 2% del PIL, mentre in altri – tra cui l’Italia – resta ferma allo 0,5%. Un’altra possibilità potrebbe essere quella di adottare imposte sulla ricchezza. Ma il vero obiettivo è quello di rendere la crescita economica più inclusiva e l’occupazione più flessibile rispetto ai cambiamenti, stimolando i governi a investire soprattutto nell’istruzione e nella formazione continua per rendere i lavoratori in grado di adattarsi alle trasformazioni del mercato del lavoro.