Siamo ormai da poco entrati nel sesto anno della crisi economica che nel 2008 ha colpito prima gli Stati Uniti e dopo poco tempo si è propagata all’Europa e al resto delle economie mondiali. In questi anni abbiamo ascoltato tante parole, teorie e strategie di exit, ma sembra che nessuna di queste abbia saputo realmente tirarci fuori dal pantano. Tutti ormai, specialisti e non, condividono la convinzione che la vera imputata sia la finanza internazionale con le sue speculazioni. Nonostante ciò, non riusciamo a immaginare soluzioni che non siano elaborate all’interno dei paradigmi economici che hanno permesso e continuano a permettere la supremazia dei mercati finanziari sulle economie reali.
Si è compreso ormai che questa crisi non assomiglia a nessuna della altre che già le economie capitaliste hanno affrontato nel recente passato. Questa non è solo una crisi, quanto piuttosto un vero e proprio cambio di paradigma. Cos’è un paradigma? Thomas Kuhn lo definì come «un insieme di teorie, leggi e strumenti che definiscono una tradizione di ricerca in cui le teorie sono accettate universalmente, all’interno di un periodo di tempo». Vuol dire che il modello o paradigma economico nato negli anni ’30 del XX secolo per rispondere alla crisi americana del 1929 oggi non funziona più. I nostri modelli attuali d’impresa sono, tranne per qualche modifica, gli stessi di quell’epoca. In questo modello l’impresa è un’entità unitaria che sfrutta le risorse interne e quelle del contesto per un profitto privato. La relazione con il contesto esterno (sociale, ambientale) è vista come secondaria e a volte come obbligo imposto dal legislatore. Nel corso degli anni abbiamo semplicemente applicato le tecnologie al processo produttivo senza però realmente innovare il sistema. Qui arriviamo a un altro punto.
La crisi non è economica ma sistemica. Questo vuol dire che attualmente siamo concentrati a far vivere un sistema vecchio che se anche ripartisse, ad esempio con un’altra bolla speculativa (magari quella della green economy), resterebbe in piedi per un altro decennio per poi ricadere in crisi. È necessario prima di tutto andare al di la di quegli schemi economici che ci fanno immaginare la ripresa economica solo come conseguenza di una ripresa dei consumi.
Non è un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca.
Da anni e soprattutto negli Stati Uniti d’America si adoperano nuovi termini come social innovation, sharing economy, peer-to-peer production. Parole che ormai anche in Italia hanno definito dei campi d’interesse e di studio che stanno coinvolgendo sempre più studiosi, imprenditori e appassionati. Dietro queste parole, che non devono assolutamente spaventare, esistono quegli anticorpi che sono in grado di generare un vero cambiamento sistemico e di creare una nuova economia dove la conoscenza sarà il vero petrolio. Il processo produttivo, per come noi lo conosciamo oggi, si sta trasformando profondamente. La produzione si svolge sempre di più al di fuori della fabbrica coinvolgendo una varietà di stakeholder e di comunità online e offline sempre maggiori. Di conseguenza le imprese sono sempre più aperte e costruiscono la propria struttura come veri network. Il vecchio modello d’impresa monolitico, chiuso, che attraverso lo sfruttamento delle risorse interne ed esterne cerca di massimizzare il proprio profitto, non è più attuale né sostenibile. Le imprese devono, e i casi di successo mostrano che lo stanno orami già facendo, costruire dei legami di responsabilità verso l’ambito sociale in cui sono inserite poiché è da lì che traggono il proprio valore. Cosa vuol dire?
Che stiamo passando da un’economia di consumo a un’economia della reputazione.
Le nuove tecnologie stanno cambiando velocemente e radicalmente il sistema produttivo e d’informazione ma sempre all’interno del vecchio paradigma consumistico. La mancata creazione di una struttura sociale che sia in grado di trarre beneficio da questi cambiamenti è una delle cause di questa crisi. Oggi «l’impresa si deve fare società: deve realmente contribuire al processo di creazione collettivo e di valore, lavorando insieme ai suoi stakeholder per un oggettivo bene comune» (Arvidsson e Giordano 2013). Come affermò nel lontano 1993 Bernard Cova, il primo a parlare di Societing, è necessario prendere atto delle nuove relazioni che si costruiscono attorno i bene di consumo. Questi diventano quindi poli attorno ai quali si creano forme di socialità che possono essere identificate per le loro caratteristiche come tribù. Se quindi i consumatori sono in grado di creare relazioni sociali e simboliche, è necessario che le imprese sappiano intercettare queste tribù al fine di creare valore per l’impresa stessa. La creazione di valore però non riguarda soltanto i legami sociali ma anche gli aspetti produttivi. I consumatori oggi non sono più soggetti passivi che subiscono il vecchio modello produttivo delle aziende ma possono essere riconosciuti come pubblici produttori. Il mondo digitale è il primo luogo dove questi pubblici hanno sperimentato la propria organizzazione, capacità e risultati.
I pubblici produttori sono tali per due caratteristiche. La prima si fonda su un ethos comune, ovvero quell’insieme di aspetti che ogni singolo soggetto del pubblico sente di condividere con gli altri e che permette di raggiungere gli obiettivi senza che le persone si conoscano tra loro. Il secondo motivo riguarda la motivazione che i pubblici sanno dare a ogni singola persona che vorrà collaborare anche al di là del compenso economico. La capacità di contribuire al lavoro del pubblico e l’effettivo impegno che il singolo soggetto dedicherà al lavoro sono alcuni degli elementi che ne definiranno la reputazione all’interno del pubblico. Così come il singolo soggetto gode di una determinata reputazione all’interno di quel pubblico, anche i pubblici produttori hanno una loro reputazione. La capacità di un pubblico di attirare al suo interno un soggetto influente o capace dipende proprio dalla reputazione che quel pubblico produttore ha maturato.
Il funzionamento di questo sistema si regola su tre caratteristiche imprescindibili. La prima è che il sistema sia meritocratico, in altre parole sia l’impegno che le competenze di ogni soggetto del pubblico devono essere riconosciute. Il secondo aspetto riguarda il sistema di valutazione diffusa, ovvero non esiste un singolo attore che detiene il potere di valutare i singoli individui ma ogni soggetto del pubblico può riconoscere il valore di ogni altro soggetto. La terza caratteristica si lega all’informazione che deve essere pubblica e disponibile.
I pubblici produttori quindi sono parti fondanti un nuovo tipo di economia che si può definire etica. Un’eticità che non è soltanto quella dei programmi di Corporate Social Responsability delle grandi aziende che, come dimostrato in alcuni casi, hanno speso più soldi in pubblicità che nei loro programmi, generando il fenomeno del cosiddetto greenwashing. Quanto piuttosto un’economia dove «l’impresa che pratica societing, deve costruirsi come un’impresa etica, che aggiunge valore tramite la propria capacità di istituzionalizzare dei valori comuni a una comunità produttiva» (Arvidsson e Giordano 2013).
Per approfondire:
- Arvidsson A. e Giordano A., Societing Reloaded. Pubblici produttivi e innovazione sociale, Egea, Milano, 2013.
- Cova B., Giordano A., Pallera M., Marketing non-convenzionale. Viral, guerrilla, tribal, societing e i 10 principi fondamentali del marketing postmoderno, Il Sole 24 Ore, Milano, 2012.
- Murray R., Caulier Grice J., G. Mulgan, Il libro bianco sull’innovazione sociale, ed. it. a cura di Arvidsson A., Giordano A., 2011.
- Fabris G., Societing. Il marketing nella società postmoderna, Egea, Milano, 2009.