Benché prematura, ogni riflessione sul mondo che seguirà alla fine della pandemia di Covid-19 – la più grave che l’umanità è chiamata ad affrontare dal 1918 – deve fare i conti non tanto con i semi di futuro presenti nell’oggi, ma con la nostra visione del domani. Mai come in questo momento il passaggio dal futuro prevedibile al futuro preferibile è indispensabile; perché è facile immaginare che, cessata l’emergenza e trovati i mezzi per contenere cicli influenzali futuri attraverso vaccini, terapie o pratiche di salute pubblica, tutto possa tornare alla normalità, laddove invece è evidente che una parte crescente della popolazione mondiale non desideri affatto un mero ritorno al passato.
Navigare in un presente incerto
L’epidemia di peste che infuriò in Europa nella metà del XIV secolo mutò in modo radicale le strutture sociali del tardo medioevo, favorendo aperture e progressi culturali, economici, scientifici, politici. C’è da attendersi che qualcosa del genere si verifichi anche nel prossimo futuro. Come nella società della belle époque, pur dominata da rapide innovazioni tecnologiche, trasformazioni e prosperità, si avvertiva prepotente l’incombere di un’oscura minaccia, simile all’iceberg che nel 1912 affondò la più grande meraviglia dell’ingegneria navale dell’epoca, il Titanic, e che si manifestò in tutta la sua violenza con la Prima guerra mondiale, dissolutrice di antichi imperi e innesco di un’accelerazione del cambiamento che si ripercuoterà per tutto il XX secolo, così negli ultimi anni, pur inebriati e abbagliati dagli straordinari progressi della scienza e della tecnologia, sentivamo che la strada intrapresa non fosse, dopotutto, quella migliore, e che dal futuro ci stesse correndo incontro qualche pericolosa incognita. Ora che siamo giunti al punto di svolta, percepiamo come mai prima d’ora la fragilità del presente e l’imponderabilità del futuro; il nostro incedere sicuro e deciso si è fatto incerto, camminiamo a tentoni, sentiamo la solida realtà venire meno sotto i nostri piedi e abbiamo l’impressione di navigare tra le sabbie mobili.
Questa percezione deriva dal fatto che al futuro possibile e pensabile si è sostituito ciò che ci appare impossibile e impensabile. Arriva, nella vita di ciascun di noi, il momento in cui la nostra solida realtà viene messa in discussione dall’apparizione di fattori imprevedibili e imprevisti; la capacità di accettare queste incognite e adattarci di conseguenza è parte integrante del processo di maturazione di ogni essere umano. Ciò è tanto più vero per le compagini sociali. È stato già dimostrato da osservatori autorevoli che una pandemia virale come quella che stiamo vivendo non può rientrare appieno nella casistica dei “cigni neri”, perché un simile scenario era già stato abbondantemente previsto da tutti gli esperti e allarmi al riguardo sono stati lanciati da anni in tutte le sedi istituzionali del mondo. Anche così, comunque, la crisi ci ha colti di sorpresa, per l’ampiezza del contagio e la velocità con cui ha stravolto radicalmente le nostre esistenze. È difficile sostenere che avremmo potuto prepararci diversamente; non esistono piani condivisi e anche nell’emergenza presente abbiamo visto la comunità scientifica dividersi sulle misure da intraprendere. Tale incertezza è dovuta al fatto che un virus è pur sempre un agente biologico, come tale dotato – pur nella su intrinseca semplicità – di elementi di imponderabilità rispetto a un fenomeno fisico; e un contagio, in una società complessa come quella globale in cui viviamo, è per definizione un “sistema complesso” che sfugge a leggi e modelli di previsione.
La tecnologia per una società meno fragile
Viene allora naturale ragionare su come rendere il mondo di domani meno vulnerabile a crisi come questa, che gli esperti ci assicurano torneranno a trovarci: tanto più che le due ultime epidemie, pur contenute, dovute a coronavirus – la SARS e la MERS – si sono verificate solo pochi anni fa, prova che la capacità di questa tipologia di virus di attaccare l’uomo sta accelerando in modo inquietante. Senza dubbio, abbiamo bisogno che l’umanità sia in grado di cogliere con il dovuto anticipo le nuove crisi e mettere in campo per tempo le necessarie contromisure. Ancor di più, abbiamo bisogno di modelli sociali più resilienti ai danni di pandemie di questo tenore: per cui ben venga lo smart working per tenere in piedi le attività impiegatizie, l’automazione delle fabbriche per proseguire la produzione, l’e-commerce per garantire la continuità del commercio, l’efficientamento della supply chain per ottimizzare gli approvvigionamenti, la digitalizzazione della scuola e dell’università per consentire agli studenti di continuare a formarsi.
L’innovazione tecnologica ci ha messi nella condizione di ammortizzare in parte i danni di questa crisi, per cui è assolutamente necessario proseguire su questo percorso affinché il futuro non ci colga impreparati. È stato giustamente fatto notare, per esempio, che un ridotto timore per gli effetti della pandemia si è registrato in un paese come l’Estonia dove l’innovazione digitale è stata pienamente sviluppata; è chiaro che se una persona anziana è in grado di vedersi versata la propria pensione su un conto bancario online ed è in grado di svolgere altre tipologie di servizi, dal pagamento delle bollette all’acquisto della spesa, attraverso un’app, avrà meno necessità di mettere seriamente a rischio la sua salute in una coda alle poste o al supermercato, minimizzando anche il disagio inesorabile che le misure di distanziamento sociale comportano. Ancor di più, una persona anziana che usa in modo maturo e responsabile i social network e i canali di comunicazione online con i propri cari e il resto del mondo avvertirà in misura minore il disagio della solitudine. In una simile società, è anche più facile per il governo introdurre misure di sostegno ai redditi, perché chiunque è in grado di presentare domande online e ricevere i soldi direttamente sul proprio conto, senza doversi mettere in fila in banca o alla posta o all’ufficio di previdenza sociale. Tutto ciò deve convincerci dell’esigenza di superare le naturali ritrosie all’analfabetismo digitale per realizzare una società più smart e in grado di gestire in remoto la stragrande maggioranza delle sue funzioni, senza che nessuno resti indietro.
L’autentico progresso umano
Ma la tecnologia, da sola, non è la risposta. Rileggendo le cronache delle epidemie di peste che flagellarono d’Europa ciclicamente per quasi cinque secoli, scopriamo che le soluzioni adottate non erano molto diverse da quelle attuali – l’isolamento, soprattutto – né era diverso l’impatto sociale: “Arresto delle attività familiari, silenzio della città, solitudine nella malattia, anonimato della morte, abolizione dei riti collettivi di gioia e di dolore: tutte queste brusche fratture con gli usi quotidiani erano accompagnate da una totale impossibilità di formulare progetti per il futuro”, scrive lo storico Jean Delumeau nel suo La paura in Occidente. La differenza tra ora e allora è data, da un lato, dalle possibilità che la tecnologia ci offre per sentirci decisamente meno soli e consentirci di proseguire, in buona parte, la nostra routine quotidiana all’interno delle nostre case; dall’altro, dal fatto di vivere in un sistema di welfare che non lascia sole le persone in difficoltà. Non vediamo e non vedremo morti per le strade che nessuno è in grado di raccogliere, lazzaretti di appestati abbandonati alla morte, ammalati inchiodati in casa senza cibo, inedia e miseria ovunque. Se è vero, come ha affermato papa Francesco, che è “davanti alla sofferenza” che “si misura il vero progresso dei popoli”, è indubbio che un autentico progresso, tra le epidemie di allora e quella di oggi, c’è stato. Sentiamo con molta più responsabilità l’esigenza di tutelare il diritto di ciascuno alla vita e alle cure, di garantire anche a chi non ha mezzi il sostentamento. Progresso tecnologico e progresso sociale devono procedere di pari passo.
I rischi di un mondo in cui solo il primo – il progresso tecnologico – forgia il nostro futuro sono ben evidenti. Già oggi, chi lavora in smart working spesso si trova a lavorare molte ore più di prima, perché, con la scusa del lavoro agile, viene meno il limite agli orari di lavoro. I big data vengono messi al servizio di progetti di controllo sociale che, se portati avanti da regimi poco democratici, finiscono molto presto per diventare strumenti di oppressione. L’ipertrofia della produzione industriale spinge a una rapida riapertura delle fabbriche, in spregio agli obblighi di salute pubblica, in virtù di una presunta superiorità delle esigenze di mercato rispetto a quelle degli individui, soprattutto se le persone più esposte sono le “forze improduttive”, vale a dire gli anziani.
La tentazione di una ritirata nel cyberspazio
Si avverte prepotente la tentazione di una ritirata dalla vita sociale. Celebri romanzi come Il sole nudo di Isaac Asimov o La possibilità di un’isola di Michel Houellebecq ci hanno già posti di fronte a un possibile esito di misure di distanziamento sociale radicali e protratte nel tempo al fine di salvaguardare la nostra incolumità. Questi scenari della postumanità non sembrano lontani, se è vero che già oggi una parte importante della nostra quotidianità si svolge in un ambiente virtuale (i social media, il web, gli strumenti di teleconferenza ecc.). È del tutto pensabile un mondo in cui le nostre relazioni, sempre più atomizzate, si svolgano totalmente a distanza, a salvaguardia della nostra longevità; benché sia bastato un minuscolo virus a dimostrarci l’illusorietà di quei vaghi progetti di longevità radicale di cui spesso sentiamo parlare.
Di contro, la risposta collettiva alla pandemia, nonostante alcune pur importanti voci contrarie, mostra che per la nostra società non esistono “vite di scarto”, che l’esigenza di tutelare il diritto alla vita di anche una sola persona è sufficiente a imporre misure cautelative straordinarie, in opposizione a un modello sociale in cui vecchiaia o malattia (per non parlare della morte) vengono relegate ai margini dell’esistente. Un futuro inclusivo non può andare a beneficio solo dei più giovani, dei più produttivi, dei più integrati, dei più sani, ma tiene conto del fatto che la parabola dell’esistenza umana si completa con la vecchiaia (per molti) e la morte (per tutti). Non tenerne conto significa creare una società schizofrenica, incapace di comprendere il senso dell’esistenza e quindi ancor di più incapace non solo di adattarsi all’impossibile e all’impensabile, ma anche di costruire un qualsiasi futuro dotato di senso.
Nella sua cronaca della peste del 1348, Jean de Venette scrive: “Quando l’epidemia, la pestilenza e la mortalità cessarono, gli uomini e le donne rimasti si sposarono a gara. Le donne sopravvissute ebbero un incredibile numero di figli (…). Ma, ahimè, da questo rinnovamento il mondo non ne è uscito migliore: infatti gli uomini furono ancora più cupidi e avari, poiché volevano avere molto di più di prima”. Di qui l’illusorietà dei discorsi di chi crede che, come d’incanto, il mondo di domani sarà diverso da quello di prima. È chiaro che non sarà così a meno che non si insista su un vero cambio di paradigma nell’ordine sociale e culturale del mondo. In questo, la tecnologia ha un ruolo ancillare, non centrale. Se, per costringere le persone a restare a casa, un governo deve utilizzare droni, sistemi di riconoscimento facciale e app di controllo dei movimenti, oltre a prestare il fianco a derive autoritarie spinge verso una deresponsabilizzazione dell’individuo. Al contrario, un autentico progresso passa necessariamente per una maggiore responsabilità di ciascuno. Solo se saremo in grado di introiettare nei nostri comportamenti l’obbligo di limitare la nostra libertà a vantaggio della sopravvivenza dei più deboli, ci dimostreremo in grado di costruire un futuro migliore e inclusivo. Altrimenti, delegheremo sempre di più la nostra libertà decisionale alle macchine.
Ripensare la condizione umana
Qui ci viene in soccorso Hannah Arendt. La filosofa e politologa americana, nel suo libro The Human Condition (1958), da noi tradotto col titolo Vita activa, ci offre consigli importanti per l’avvenire. Laddove lo spaesamento che colpisce gran parte di noi deriva dal fatto di non poter svolgere le nostre attività quotidiane, ossia il nostro lavoro, perché ciascuno si riconosce e si identifica nel lavoro che fa, Arendt ci ricorda che il lavoro non coincide con l’agire, anzi: l’homo faber, l’uomo produttivo, svolge il suo lavoro nell’isolamento, anche quando si ritrova all’interno di un ambiente affollato, come una fabbrica o un ufficio open space. L’altra illusione del lavoro è che esso sia sempre produttivo, “per quanto possano essere futili e non durevoli i suoi prodotti”. La sospensione di tutti i lavori non indispensabili, imposta dal governo italiano, ci ha fatto accorgere, forse per la prima volta, che una parte non indifferente dei nostri lavori non sono, in effetti, necessari, se non per garantire il nostro sostentamento. Man mano che una parte preponderante della produzione viene automatizzata, nascono nicchie occupazionali del tutto accessorie, che trovano giustificazione solo nel circolo vizioso di capitale necessario a conservare il rapporto tra produttori e consumatori, senza il quale la nostra società industriale collasserebbe. Come spiega invece Arendt: “La realtà e l’attendibilità del mondo umano riposano principalmente sul fatto che noi siamo circondati da cose più permanenti dell’attività con cui sono prodotte, e potenzialmente più permanenti della vita dei loro autori”. È chiaro allora come, in un mondo fondato sulla produttività fine a se stessa, la realtà si disgreghi velocemente quando il processo produttivo viene interrotto, poiché persino le vite stesse delle persone si identificano in via esclusiva nel prodotto del loro lavoro.
Una vita activa, al contrario, pone l’accento sul discorso e sull’azione, condizioni fondamentali della pluralità umana. “L’azione, diversamente dalla fabbricazione, non è mai possibile nell’isolamento; essere isolati significa essere privati della facoltà di agire. Azione e discorso necessitano della presenza degli altri”, scrive ancora Arendt. Nel mondo di oggi, il “come” si è sostituito al “perché”, il mezzo – il processo di produzione – è diventato più importante del fine, del prodotto finito. In modo speculare, la tecnologia si sostituisce alla scienza, cosicché si applicano soluzioni tecniche a problemi sociali senza prima chiedersi se esistano modi più semplici e anche più responsabili per ottenere lo stesso fine. Se cediamo alla tentazione di rifugiarci nel cyberspazio, dove né virus (a parte quelli cibernetici) né batteri possono raggiungerci e dove possiamo illuderci di vivere eternamente, le stesse dinamiche all’opera nel mondo attuale ci raggiungeranno a loro volta. Già oggi, le piattaforme digitali come Facebook di fatto ci chiedono di lavorare per generare valore, sotto forma dei dati che cediamo. In cambio ci concedono la possibilità di conservare una vita sociale attiva, ma anche quella potrebbe presto essere sacrificata: alla possibilità concessa all’utente di svolgere discorsi dotati di senso, Instagram e TikTok sostituiscono modalità di fruizioni sempre meno strutturate, a cui solo molto faticosamente e piegando le logiche native di quei social alcuni utenti sono in grado di far passare messaggi in grado di agire sul mondo (pensiamo ai meme). Il lavoro fisico si trasferisce nel mondo digitale e diventa sempre più svincolato alla produzione fisica, accelerando l’alienazione sociale. Possiamo e dobbiamo invece avere il coraggio di immaginare un mondo nuovo dove la vita activa torni a essere centrale nell’esistenza umana e lo faccia attraverso la nostra vita sociale.
Un nuovo modello di welfare per la società post-lavoro
Di fronte al blocco della produzione, la soluzione più facile, perché identica alle logiche del passato, è chiedere un rapido ritorno alla normalità riattivando fabbriche, aziende, esercizi commerciali. Ma perché non immaginare qualcosa di altrettanto semplice, ma innovativo, come assicurare a tutti coloro che non hanno un reddito una base economica con cui fa ripartire l’economia? Perché non pensare di svincolare il lavoro dal sostentamento economico? Se questa rappresenta oggi una soluzione emergenziale alla quale anche politici ed economisti più riottosi guardano come a un’opzione concreta, domani potrebbe diventare una prassi. Se ci pensiamo bene, ciò che genera oggi più angoscia è l’impressione che, non lavorando, si sia in ozio, improduttivi, non vivi. Ma è un’illusione generata dall’errata identificazione – protratta nei secoli – tra azione e lavoro. Un futuro in cui a tutti siano garantiti i mezzi di sostentamento è un mondo in cui una miriade di lavori improduttivi, inutili e insensati scompariranno e in cui l’agire sociale nella sua forma più nobile tornerà al centro della società. Verranno allora liberate le potenzialità necessarie a un autentico progresso umano, inclusivo e solidale; ancor di più di oggi potremo mettere il nostro tempo e le nostre capacità al servizio di scopi più nobili, come aiutare chi è rimasto indietro, le persone svantaggiate, i poveri del mondo, coloro che vivono e soffrono lontani da noi.
Se c’è qualcosa che la crisi che oggi viviamo ci insegna, è che il progresso non coincide con l’innovazione. Affinché l’innovazione tecnologica e scientifica produca vero progresso, occorre che si potenzino i legami tra esseri umani; l’autentico progresso che oggi percepiamo, rispetto ad analoghe crisi pandemiche del passato, sta nell’empatia che ci spinge a sacrificare l’interesse di oggi per il benessere del futuro, la vita del giovane per la sopravvivenza del più anziano, in un approccio transgenerazionale, l’unico possibile per costruire un futuro che non sia a detrimento dei più deboli, tra cui dobbiamo contare anche le generazioni a venire, che abbiamo privato di molti dei mezzi a noi concessi.
Le tecnologie, da questo punto di vista, ci tornano straordinariamente utili, dal momento che non potremmo ottenere tutto ciò senza l’automazione dei processi produttivi, la digitalizzazione dei servizi, la smaterializzazione della burocrazia; e neppure senza gli strumenti che oggi ci permettono di aumentare la nostra sfera sociale, costruendo nuove reti di interazione. Ma le tecnologie sono solo propedeutiche a questa trasformazione: sono un mezzo, non il fine. Se agire significa – scrive Hannah Arendt – prendere un’iniziativa, iniziare, mettere in movimento qualcosa, l’azione, da questo punto di vita, è molto lontana dal lavoro, che implica un processo ripetitivo. La differenza tra la forza del processo di produzione, “interamente assorbita dal prodotto finito in cui si esaurisce”, e la forza del processo di azione, sta nel fatto che quest’ultima “può accrescersi mentre le sue conseguenze si moltiplicano”, e questi processi sono indipendenti “dalla deteriorabilità dei materiali e dalla mortalità degli uomini quanto la durata stessa dell’umanità”. L’azione, quindi, intesa come essenza autentica della condizione umana, è ciò che permette di riaprire un futuro chiuso dalla stasi della ripetitività del mondo in cui viviamo. Per usare una bella frase di Marcel Proust, “l’immobilità delle cose intorno a noi è loro imposta (…) dall’immobilità del nostro pensiero nei loro confronti”.
Un nuovo modello di convivenza sulla Terra
Eppure, la convivenza tra simili, in cui si esplica la nostra vita collettiva, si pone di fronte a noi oggi come una minaccia alla nostra sopravvivenza. Domani come oggi, il nostro simile potrebbe rappresentare un rischio di contagio; questo timore è ciò che più ci spinge verso un futuro in cui l’isolamento emergenziale diventi prassi quotidiana. Ma il ragionamento è sbagliato: perché esiste un modo di anticipare nuove pandemie, ed è quello di prevenire le zoonosi, ossia impedire il salto di specie dell’agente patogeno dall’animale all’uomo. Come possiamo riuscirci? Migliorando, in modo radicale, il nostro rapporto con la biosfera. Non dimentichiamoci che abbiamo sempre un grande problema davanti a noi che pone una pesante ipoteca sul futuro. Il coronavirus passa, i cambiamenti climatici restano. Esiste, senza alcun dubbio, un nesso tra le due cose; o meglio, l’accelerazione dei processi di trasformazione dei coronavirus (e non solo loro) è resa possibile dall’Antropocene, da quest’epoca nuova in cui il dominio dell’umano si è esteso al pianeta intero e a tutta la vita che contiene. Siamo tutti consapevoli che il nostro rapporto con la natura si è deteriorato in modo irreparabile; le foreste che bruciano distruggono habitat essenziali per specie animali di cui ignoriamo persino l’esistenza, e ci privano anche della possibilità di accedere a sostanze contenute in piante, alberi, funghi e altri vegetali che possono essere essenziali per la nostra sopravvivenza, come nuovi principi attivi contro batteri resistenti ai tradizionali antibiotici. Privando di futuro le altre specie viventi, compromettiamo a nostra volta le nostre possibilità di futuro. In questo contesto, ambienti come quello dei wet market cinesi, dove gli animali vengono macellati ancora vivi, e i cui fluidi corporei si mescolano con altre specie e con quelli umani, diventano incubatori di bombe batteriologiche dal potenziale estintivo per la specie umana. Allevamenti intensivi dove nascono e si sviluppano patologie del bestiame sono altre fonti primarie di salti di specie di enorme pericolosità.
Parlando di progresso umano, si è detto che l’autentico progresso consiste nella capacità di empatizzare con le vite altrui, provarne compassione e agire per migliorarne le condizioni. È giunto il momento di estendere questa considerazione anche al dominio dei non-umani, di “stringere nuove alleanze tra umani e non-umani”, come scrive il filosofo Timothy Morton. La ritirata nel mondo digitale ci dà solo l’illusione di poter vivere senza il resto della biosfera, magari disincarnandoci in realtà virtuali che però girano su server che sono parte di questo mondo e che risentono delle condizioni del pianeta. Peraltro, ormai la neurologia e la filosofia cognitiva ci hanno dimostrato che non può esistere un’intelligenza disincarnata: l’embodiment, cioè l’incarnazione della mente in un corpo fisico, è prerequisito essenziale per la nascita della coscienza di sé, perché solo attraverso l’interazione sensoriale con il mondo arriviamo a capire noi stessi. Abbandoniamo, pertanto, ogni illusione di una fuga nella trascendenza tecnologica e accettiamo l’esigenza di un accordo col mondo di cui siamo parte. Solo attraverso questo processo impediremo che la natura, che oggi rappresenta per noi l’alterità più radicale e inconcepibile, diventi un’autentica minaccia alla nostra sopravvivenza.
Ancora domina oggi il mito del darwinismo sociale, che ci spinge a credere che nella sua essenza l’esistenza sia sopravvivenza, per cui dinanzi a un rischio diretto alla nostra incolumità ogni struttura sociale è costretta a cedere e ricondurci alla “nuda vita”, all’homo homini lupus. È un’idea sbagliata e pseudoscientifica; la selezione naturale, oltre un certo livello di complessità, premia la cooperazione, non la competizione. Ciò vale per la specie umana, come la storia recente dimostra; ma vale anche per le altre specie e per le relazioni tra noi ed esse. Siamo in grado di superare i condizionamenti delle leggi di natura e spingere l’evoluzione verso un futuro di cooperazione e riconciliazione con la biosfera. Questo non ha nulla a che vedere con discorsi primitivisti o retroutopisti. Non si tratta di tornare a un ideale quanto immaginario stato di natura, al “mito del buon selvaggio”. Tecnologie e innovazione da questo punto di vista saranno ancora una volta indispensabili per mitigare il nostro impatto ambientale, salvaguardare la biosfera ed entrare in comunicazione con la vita non-umana.
Sono obiettivi forse così ambiziosi che è facile confonderli con l’utopia. Ma non è necessario arrivarci domani; si tratta di indicare un orizzonte all’interno del quale strutturare l’agire di questa e delle prossime generazioni, verso un futuro diverso dalla mera proiezione del presente, che promuova un cambiamento autentico, non di facciata. Esisteranno, è ovvio, altri “futuri preferiti” che divergono da questo e da sue possibili variazioni. Prenderne coscienza è prerequisito indispensabile per comprendere che è l’azione del singolo a forgiare un mondo nuovo, non l’inesorabile incedere di forze impersonali. Ancora una volta, il primo passo è la responsabilizzazione personale: non delegare alla tecnica il destino del nostro mondo, ma impegnarsi per realizzarlo in prima persona. Nessun discorso sul futuro è possibile senza questa prima, essenziale presa di coscienza.
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